Quando si parla di crimini di guerra, c’è una parola nel vocabolario giornalistico che assuma una valenza particolare ed è: “responsabilità”. Si è parlato soprattutto di questo al panel “Documentare i crimini di guerra in tempo reale” del Festival del giornalismo di Perugia. Un incontro moderato dalla responsabile della comunicazione di Human Rights Watch, Mei Fong, in cui si è discusso delle buone pratiche da seguire quando ci si trova a documentare le atrocità della guerra. Che cos’è esattamente un crimine di guerra e come è possibile distinguerlo? Quali prove dovrebbero cercare i giornalisti per sostenere azioni penali di successo? Ma soprattutto, quali precauzioni prendere per evitare di sottoporre i testimoni ad un ulteriore rischio? Di questo e molto altro ha parlato alla conferenza Janine Di Giovanni, giornalista e corrispondente di guerra, nonché fondatrice nel 2022 del “The Reckoning Project: Ukraine Testifies”. Un’organizzazione che mira a formare giornalisti e ricercatori fornendo loro gli strumenti necessari per poter raccogliere testimonianze (legalmente ammissibili) che documentino i crimini di guerra commessi durante l’invasione russa dell’Ucraina.

Janine, quale pensi che sia il ruolo del giornalista nella narrazione di un conflitto o di un particolare crimine di guerra? Quali sono le sue principali responsabilità?

Penso che il giornalista debba cercare, anzitutto, di portare alla luce la verità. Dunque, prendere in considerazione uno scenario specifico – che sia questa una guerra, un caso di corruzione all’interno del governo o un reato della criminalità organizzata – per poi andare a scomporlo pezzo dopo pezzo così che sia comprensibile ad un pubblico più ampio.

Di fronte a crimini di guerra come quelli che si stanno consumando in questo momento in Ucraina, qual è il segreto per evitare la polarizzazione? Come si può rimanere distaccati e oggettivi?

É molto difficile. Siamo umani e non macchine asettiche incapaci di provare emozioni. Nel mio lavoro mi sono trovata spesso di fronte a terribili atrocità, come quelle commesse a Buça, in Ucraina l’anno scorso. Ma siamo giornalisti e sappiamo bene che il nostro dovere è quello di raccogliere testimonianze che siano il più chiare e precisi possibile. E per farlo, è necessario mettere da parte le emozioni. Nel mio lavoro mi sono trovata spesso di fronte a terribili atrocità, come quelle commesse a Buça, in Ucraina l’anno scorso. Ma siamo giornalisti e sappiamo bene che il nostro dovere è quello di raccogliere testimonianze che siano il più chiare e precisi possibile. E per farlo, è necessario mettere da parte le emozioni. Questo non significa però che non si possa mostrare empatia o compassione alle vittime.

Qual è il limite che il giornalista non deve superare nella narrazione di un conflitto per non danneggiare ulteriormente i testimoni?

Quando intervistiamo i testimoni ci assicuriamo sempre di essere trasparenti, spiegando loro che le dichiarazioni rilasciate potranno essere usate legalmente per la costruzione di casi. In sostanza, devi essere chiaro fin dall’inizio, specificando che cosa andrai a fare, ma soprattutto – come ho sottolineato più volte a Perugia – devi fare in modo che si sentano al sicuro. Stiamo parlando di persone che sono già state profondamente traumatizzate e che di conseguenza vanno protette più di chiunque altro. Quindi il nostro mantra come investigatori dei crimini di guerra è anzitutto questo: non nuocere, non danneggiare ulteriormente le vittime.

Nel 2022 hai fondato “The reckoning project”. Come siete partiti?

In primis, abbiamo selezionato trenta giornalisti investigativi ucraini e gli abbiamo insegnato come si lavora sul campo. Come documentare i crimini di guerra raccogliendo testimonianze che siano legalmente ammissibili. Quando intervistano le vittime di queste terribili atrocità non si comportano da giornalisti, non cercano un titolo sensazionalistico. Al contrario, procedono con cautela, assicurandosi che i testimoni intervistati non siano in pericolo. In poche parole, da giornalisti sono diventati dei veri e propri ricercatori, degli osservatori dei diritti umani. Le persone si fidano di loro perché sono nati e cresciuti in Ucraina. E loro sono orgogliosi di aiutare il proprio paese, contribuendo in qualche modo alla giustizia.