È l’autunno del 1980, quando negli Stati Uniti esce Black Market Clash, una raccolta di rarities dei Clash. La band inglese era all’apice del proprio successo e aveva appena pubblicato il proprio capolavoro London Calling. La raccolta, che dopo di allora non venne più ristampata, e quindi divenne introvabile in Gran Bretagna e nel resto del mondo, conteneva delle b-sides mai pubblicate prima. Tra le varie canzoni ce n’era una in particolare che esplorava i territori del reggae: Armigedon Time. L’ultimo film di James Gray parte da qui, dal brano di una band che nel corso degli anni ha cercato sempre di smentire ogni norma, smontando anche le regole del punk che di regole in teoria non ne avrebbe proprio dovute avere.

Il protagonista Paul Graff è un Joe Strummer di undici anni che sogna di fare l’artista. Il suo essere estroverso si manifesta nel disegno e nella sua strafottenza di fronte alle regole imposte dai suoi genitori. L’unica persona adulta con cui riesce a instaurare un rapporto di fiducia e stima è suo nonno Aaron (Anthony Hopkins). Il suo migliore amico è Johnny, un compagno di classe afroamericano ripetente che vive con sua nonna in condizioni disagiate. Paul, proveniente da una famiglia ebrea, nell’emarginazione scolastica e sociale del suo compagno di classe rivive il razzismo subìto dai suoi nonni in Germania. Per questo cerca di aiutarlo in tutti i modi, facendosi trascinare anche in situazioni pericolose. I due creano una combo esplosiva. Armageddon Time è un film pieno di apocalissi: ci sono quelle tipiche di un adolescente come il passaggio da una scuola pubblica a una scuola privata e soprattutto la separazione dal suo migliore amico; ci sono quelle politiche e sociali dell’America degli anni Ottanta. Disuguaglianze, criminalità e l’elezione di Reagan, vissuta dalla famiglia Graff come la fine del mondo.

James Gray per la prima volta si spoglia e realizza un’opera semi-autobiografica che è molto diversa nel tono dai suoi film precedenti. La critica al modello americano improntato al successo a tutti costi è preponderante. C’è una scena esplicativa in questo senso. È sera e la famiglia Graff è stata a cena fuori e sta rientrando a casa in auto. La macchina si avvia in una via larga illuminata dai lampioni e dalle luci delle villette. Alla domanda di suo figlio Paul, che non capisce l’improvviso cambio di rotta, Esther Graff (Anne Hathaway) risponde: «Stiamo andando a vedere le case dei ricchi». I soldi sono l’obiettivo, ma anche il grande ostacolo per Paul. Gli artisti non guadagnano, continua a ripetere suo padre. Armageddon Time è uno sguardo critico e poco nostalgico, a differenza di quanto si possa immaginare. Ed è proprio questa la sua forza, il non essere una storia di formazione come tutte le altre.

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