«Vivere d’arte? Sembrerebbe un’utopia», eppure talvolta accade l’inaspettato e per un frangente di tempo o, nel caso di fortunati talentuosi per una vita intera, il desiderio è realtà. Il Ravenna Festival da ben trent’anni cerca di dar vita ad un sogno, accogliendo l’arrivo della stagione estiva con un evento a vocazione multidisciplinare. Da maggio a luglio una città intera si trasforma in un palcoscenico itinerante: dai teatri storici, alle basiliche dalle pareti di mosaico, passando per i chiostri e i palazzi antichi, ogni luogo evocativo diventa cassa di risonanza di un linguaggio artistico. Superata, ad oggi, la fase più acuta dell’emergenza Coronavirus, con cautela e opportuni cambiamenti il Festival si farà.Domenica 21 giugno il Maestro Riccardo Muti ha aperto con un concerto inaugurale la 31esima edizione, dirigendo l’Orchestra Giovanile Luigi Cherubini, che accompagnava il soprano Rosa Feola. L’evento è stato fruibile ad una platea illimitata in diretta su ravennafestival.live, trasmesso su Rai Radio 3 e un numero ridotto di spettatori ha partecipato  anche dal vivo. Il bilancio raccolto in questi anni (1990-2020) conta 35mila artisti esibitisi in oltre 100 location, più di 1milione di spettatori che hanno preso parte a 1500 eventi e 150milioni di euro investiti in cultura, grazie al contributo e al sostegno di sponsor. Per riscoprire le radici del progetto e l’ambizione che lo guida, anche in un tempo così difficile per la musica e per i teatri, ci siamo rivolti alla sua fondatrice, nonché presidente onorario Cristina Mazzavillani Muti.

Com’è nato il Ravenna Festival?
Il Ravenna Festival è nato per una chiamata precisa, fatta dal sindaco della città esattamente trentuno anni fa: era il 1989. Risposi subito di no, mi faceva paura solo pensarci, non mi ero mai cimentata in niente di simile. Nonostante avessi studiato musica al conservatorio e fossi sposata con un artista che stava facendo una carriera straordinaria, non me ne sentivo capace e avevo tre figli piccoli da crescere; sembrava una cosa più grande di me. Tuttavia sono sensibile alle chiamate. Qualche giorno dopo aver detto di no, Benigno Zaccagnini, che io riconosco come un secondo padre, tanto l’ho amato e ammirato, chiamò, dicendomi: «Cristina ho saputo che hai rifiutato una proposta che farebbe molto bene alla città», sollecitandomi a quello spirito di servizio al quale non ci si può sottrarre. In quel momento mi sentì molto romagnola, figlia di una città dove ero nata e cresciuta e avevo conosciuto la mia gente in pregi e difetti. Mi rimboccai le maniche pensando: «Mi chiamo Muti, ma Riccardo Muti ce lo dobbiamo guadagnare».   Dopo aver studiato a Venezia, a Milano e aver vissuto a Firenze, ero di nuovo a Ravenna, pronta a costruire un festival.  Ho fatto del mio meglio perché potesse nascere libero, scevro dalle logiche politiche e allo stesso tempo appoggiato da tutti. Chiunque in città avesse un valore creativo, doveva far parte dell’evento, perché solo in questo modo sarebbe diventato davvero il festival di Ravenna. Trovai danzatori, artisti e attori: penso a Marco Martinelli alla guida di Ravenna Teatro o alla compagnia teatrale Fanny & Alexander. Cercavo spiriti desiderosi.  Tutte le volte che interrogavo questa gente vedevo nei loro occhi la stessa luce che probabilmente avevano i miei, mentre radunavo talenti da aggregare e grazie ai quali far crescere la città, perché un luogo può fiorire soprattutto per merito degli artisti che lo abitano. In questo dico di aver avuto una natura molto romagnola, perché in genere si pensa: «Chi invito? Dove vado? E con quali fondi?». Invece, partendo dalle genialità locali, abbiamo saputo metterci alla prova. Questa scelta è stata premiante.

Così è cominciata l’avventura.
Il Festival col passare del tempo è diventato internazionale: partiti da quella idea di “artigianato artistico” locale, l’evento si è allargato all’Italia, guardando poi al resto del mondo. Dopo 31 anni di meraviglioso lavoro lo scorso dicembre ho deciso di ritirarmi. Il team è cresciuto: ragazzi che avevano 18, 19 anni oggi ne hanno 50. Sono persone esperte e in gamba. Devo dimostrare con le forze che ancora ho la grande solidità di un gruppo, certo da me creato ma capace di continuare in autonomia a a proporre altre nuove e giovani leve, in grado di alimentare un patrimonio culturale tanto importante come il Ravenna Festival.

La trentunesima edizione si inaugurerà alla Rocca Brancaleone, come accadde in occasione del primo concerto inaugurale del 1990. Dopo mesi di lockdown crede sia questo un modo per far rinascere la musica?
Il prossimo 21 giugno, dopo l’odissea del Coronavirus che ha fiaccato tutto e tutti, il poter ripartire in un ambiente che è sempre stato ritenuto il cuore della città è doppiamente un successo. Occorrono certo coraggio e anche umiltà, per credere che succederà, e sarà un avvio che farà bene alla comunità. L’unico dispiacere, ovviamente, è il non potersi riunire e fare una grande festa insieme. Ma insieme non si può stare. Tuttavia riapriamo.Un pubblico di trecento persone potrà, rispettate le distanze di sicurezza, assistere agli spettacoli che avverranno alla Rocca, ristrutturata grazie a ai contributi del Ministero della Cultura. Non solo, una platea infinita sarà presente anche attraverso dirette streaming.Da questo punto di vista lavorare in anticipo e con lungimiranza nel corso degli anni ci ha permesso di fruire del nostro patrimonio storico. Sembra impensabile esserci riusciti, eppure si susseguiranno 40 spettacoli;un ottimo risultato per il periodo che stiamo affrontando. Alcuni avverranno anche nelle città di Lugo e Cervia.

Cristina Mazzavillani Muti: “Dopo l’odissea del Coronavirus che ha fiaccato tutto e tutti, il poter ripartire in un ambiente che è sempre stato ritenuto il cuore della città è doppiamente un successo. Occorrono anche coraggio e umiltà, per credere con tutte le forze che sia potuto succedere”

 È difficile vivere d’arte? E per le donne lo è forse di più?
Vivere per l’arte? Sembrerebbe un’utopia. Innanzi tutto non sai mai se ce la farai, perché l’ambizione parte da giovanissimi. Esistono sogni che riempiono la testa di bambini e bambine. Quanti di loro avranno la possibilità, a pari merito, di riuscirci?  Nasciamo tutti con talenti immensi, ma pochissimi arrivano, mentre molti continuano ad anelare. Mi verrebbe da pensare alla parabola del Vangelo del buon seminatore. Il destino premia coloro che si affermano e questo è un dolore per me. Il significato profondo di lavorare ad un Festival è sempre stato quello di dare più possibilità ai giovani: per questo ho fatto molti incontri con ragazzi dagli 8 ai 18 anni. Abbiamo una grande responsabilità. Sebbene la storia insegni che le donne pittrici, scultrici e musiciste abbiano impiegato tanto tempo per emergere, oggi non è più così. La donna a mio parere dovrebbe ricordare sempre il suo innato talento, utilizzando la femminilità.

Dal 1997 i passi del Festival si intrecciano a quelli delle Vie dell’amicizia, veri pellegrinaggi laici che toccano città ferite, costruendo ponti di fratellanza. Chi pensò all’idea?
I concerti dell’amicizia possono anch’essi definirsi una chiamata. Nel 1997 arrivò a Ravenna una lettera firmata dagli artisti di Sarajevo, che ci spronò a fare qualcosa di diverso e giusto. Si leggeva: «Cari ravennati, voi avete appena iniziato un Festival dall’altra parte dell’Adriatico, siete bizantini come noi, perché ci dimenticate?Noi siamo qui, con anni di guerra alle spalle, il nostro Festival non esiste più. Aiutateci». Era una lettera così forte, che sembrava che qualcuno avesse fatto come San Tommaso, nel suo mettere il dito nella piaga a Cristo. Rimanemmo sconvolti. Cosa avremmo potuto fare? Ci mettemmo in caccia e “un” Caccia in effetti arrivò. Le forze armate militari misero a disposizione i loro aerei affinché potessimo raggiungere Sarajevo. Il nostro anfitrione fu proprio Riccardo Muti, che accettò subito, unendo l’Orchestra della Scala con quella rimasta a Sarajevo, composta da 35 elementi in tutto, privi di strumenti, che portammo nel viaggio insieme a noi. Mio marito decise di dirigere l’Eroica, come farà anche quest’anno per omaggiare la Siria. Il concerto avvenne in un complesso fieristico chiamato Skenderija, a malapena allestito; ricordo i buchi dei bombardamenti nel tetto sopra le nostre teste.  Ci chiedevamo chi sarebbe venuto ad ascoltarci, ritrovandoci in 11mila. È una cosa che mi commuove ancora oggi.  La mente mi rimanda alle lunghe file di persone raccoltesi, appartenenti a tutte le religioni. Le colline intorno erano disseminate di lapidi, mentre i sopravvissuti erano fra noi, dentro un palazzo lacerato ad intonare musica, piangendo. Ricordo ancora le spalle di Enzo Biagi che singhiozzava davanti a me.

E la chiamata è diventata consuetudine.
Dopo un’esperienza così non abbiamo più smesso. Il concetto è stato questo: unire i musicisti, non andare in un Paese in difficoltà, dando sfoggio della nostra bravura. Naturalmente in questi viaggi noi portiamo un dono, che è la musica, e abbiamo quindi bisogno di sponsor, cosa sempre più difficile in tempo di crisi. Ma di quale miracolo si può parlare, quando accade che senza prove tutto funzioni? È forse l’esempio di una motivazione impressionante, al di sopra di noi. Siamo andati a Beirut, Gerusalemme, Damasco e in molti altri luoghi. Le potrei raccontare un aneddoto. Era il 2005, il tema prescelto per la stagione si intitolava: “la musica del deserto”. Ci trovavamo in Tunisia, all’interno dell’anfiteatro romano di El Jem, un Colosseo di sabbia e tufo rosso. L’orchestra diretta dal Maestro Riccardo Muti stava eseguendo il Mefistofele. Proprio durante il prologo, nel momento in cui il demonio parla con Dio, sfidandolo, arrivati ad una pausa fragorosa, da lontano si sentì la voce del muezzin che cantava la preghiera ad Allah.Il Maestro e l’orchestra si fermarono e per tutta la preghiera, il pubblico rimase in silenzio. Il Mefistofele s’era taciuto perché il muezzin continuasse il suo richiamo a Dio.Vi fu al termine un applauso spirituale. I viaggi dell’amicizia sono questo. Fermarli è impossibile.

Sebbene quest’anno non sarà possibile raggiungere luoghi lontani, i concerti del 3 e del 5 luglio al Parco Archeologico di Paestum saranno idealmente dedicati alla Siria.
Non potevamo certo dimenticare un Paese tanto lacerato. I concerti saranno dedicati all’attivista e politica curda Hevrin Khalaf e all’archeologo Khaled al- Assad decapitato a Palmira. Riccardo Muti dirigerà l’Eroica, con il contributo di artisti siriani.

 

*immagine di copertina concerto inaugurale Ravenna Festival, foto di Silvia Lelli