Milano accade. Milano, così logica e razionale. Milano, che non accetta altre risposte se non un due più due è uguale a quattro. Milano, così ligia al dovere: tutti in fila, con ordine, testa bassa e un’unica strada da percorrere. Milano, che non si perde in chiacchere, perché il tempo è danaro. Milano, che ti hanno cucito addosso un bel vestitino, perfetto, su misura, alla moda come piace a te: ma a volte anche quel vestitino mostra i suoi fili. Piccole macchie su una tela bianca, sotto gli occhi di un’attenta Madonnina che osserva, lucente, dall’alto.
La trasformazione di Milano
Questa è la storia. Di uno di noi. Anche lui nato per caso in via Gluck. In una casa, fuori città. Gente tranquilla, che lavorava. Là dove c’era l’erba ora c’è. Una città. E quella casa in mezzo al verde ormai. Dove sarà. Milano, la moderna metropolitana italiana, così cambiata nel tempo e così rimpianta da Celentano con queste parole. Negli ultimi decenni ha vissuto una fervente trasformazione, dettata da una corsa al progresso senza precedenti. L’Expo del 2015, in questo senso, ha messo in moto tutta una serie di costruzione che hanno cambiato il volto della città. Spiega Gianni Biondillo, noto scrittore e architetto: “Fra il 2010 e il 2020 Milano è stato il più grande cantiere d’Europa proprio per numero di metri cubi progettati e costruiti”. L’amministrazione, dal canto suo, aveva messo gli sviluppatori urbani “nelle condizioni migliori per poter lavorare, con prezzi relativamente contenuti rispetto agli oneri di urbanizzazione”.
Tra ammodernamenti, costruzioni e opere di riqualificazione, Milano ha cambiato immagine. E con essa è, ovviamente, mutata l’intera narrazione attorno alla città: “Ora non si parla più di nebbia o di fabbriche, non è più la città nella quale la cosa più bella che puoi trovare è il treno che ti porta a Roma. C’è stata una forte rottura con il passato”.
Se è vero che, col tempo, Milano è diventata più “seduttiva”, è vero anche che “è una città sempre più cara, sempre più complicata da vivere – sostiene Biondillo – e le tende degli studenti davanti alla sede delle università è solo uno dei tanti racconti di frizione sociale”. Dietro questa bella facciata, certamente, si nascondono questioni più profonde, come la gentrification e l’esclusione sociale. “Se la città del Novecento cercava di non dimenticarsi mai degli strati popolari, oggi c’è meno attenzione da parte dell’amministrazione. Ora si fa il minimo che si può fare perché di soldi non ce ne sono”. Un tempo l’urbanistica era governata dal pubblico e dal volere politico, adesso le redini della città sono affidate a un altro potente padrone: il mercato. Milano è riuscita a costruirsi una nomea internazionale, attirando così grandi capitali stranieri e lasciando “intere parti di città libere per gli investimenti”.
Tuttavia, la legge del mercato, che ormai da tempo si è trasformata nella legge del più forte, sta di anno in anno creando un divario sociale difficile da colmare. La furia del capitalismo ha preso il sopravvento sulla città, portando con sé non solo la perdita degli ideali sociali, ma anche degli obiettivi ambientali. Infatti, “tutto quello che si legge sugli edifici sostenibili o sui boschi verticali è puro greenwashing. Affascinanti, certo, ma se dovessimo prenderci cura dell’ambiente non dovremmo costruire più nulla. Anzi, piuttosto dovremmo pensare ad un riuso di ciò che è fermo. Invece si continua a costruire strutture nuove, ma è solo per fare girare i soldi”. Milano, con la sua storia ricca di tradizione e innovazione, si trova ad affrontare sfide cruciali per il suo futuro. Mentre la città si evolve e si trasforma, la domanda che dobbiamo porci è: quale Milano vogliamo costruire per il futuro? Una città inclusiva e che si prenda cura dell’ambiente oppure figlia di un liberalismo economico malato?
Imprenditori curiosi che guardano avanti
Com’è bella la città. Com’è grande la città. Com’è allegra la città. Piena di strade e di negozi. E di vetrine piene di luce. Con tanta gente che lavora. Con tanta gente che produce. Con le reclames sempre più grandi. Coi magazzini e le scale mobili. Coi grattacieli sempre più alti. E tante macchine sempre di più. Ogni volta che qualcuno sente le parole del famoso cantautore Giorgio Gaber, non può non pensare a Milano. Città dedita al lavoro e alla fattura. Chi rimane indietro rischia di fare la fine di un Fantozzi qualsiasi: buffo, goffo, impacciato. In una parola, inadatto. Ma non è il celebre personaggio di Paolo Villaggio il problema: Fantozzi rappresenta solo quella parte di popolazione che, calato nel contesto frenetico, consumistico e nevrotico di Milano, risulta spaesato.
Milano storicamente è sempre stata il cardine del lavoro, il motore economico di uno Stato pieno di incertezze. Alcuni definiscono il capoluogo lombardo una città ricca in un Paese povero. Forse, in questi termini può risultare estremo, ma non andiamo troppo lontano dalla realtà.
Danilo Belloni, Country General Manager di Apple, trova Milano una città fantastica dal punto di vista produttivo: “Negli anni, si è creato un ecosistema per lo sviluppo economico molto buono. C’è molta curiosità. Se sei un giovane che vuole realizzare un’idea, qui trovi incubatori tecnologici, spazio di co-working, per sederti e parlare con qualcuno che magari ha un’idea simile alla tua. C’è tanto materiale per costruire e realizzare”.
La curiosità per il business e per i nuovi progetti, in questo senso, appare come uno dei tratti distintivi della città. “A Milano, comunque, il desiderio di connettere e sviluppare c’è sempre”, sostiene il manager di Apple. Questa curiosità permette di collegare esperienze diverse creando una visione più ampia e integrata: “Tu hai di fronte tre punti che sembrano in qualche modo disomogenei. Poi li osservi da prospettive differenti e ti ingegni per unirli. Tutte le esperienze che accumuli, se hai la pazienza e la curiosità di osservarle da diversi punti di vista e combinarle, possono portarti a una riflessione più ampia”.
È sempre un giocare – metaforicamente parlando – con quei tre confusi puntini per trovare nuove connessioni, sempre più creative, sempre più originali. Non è una coincidenza se “ogni cinque anni questa città è sempre diversa”. Per di più, la voglia di cambiamento e di ammodernamento ha prodotto una risonanza internazionale non indifferente. “Conosco tante persone che vivono in Europa o negli Stati Uniti. Se dovessero valutare la possibilità di venire in Italia, credo che moltissimi si trasferirebbero a Milano”.
Nel corso del tempo, il capoluogo lombardo ha creato una rete di connessione mondiale in grado di tenere gli imprenditori al passo col tempo, senza essere così travolta dalle novità che offre di continuo il mercato. Si dice che L’Italia sia un Paese lento a metabolizzare le ultime scoperte, soprattutto in ambito tecnologico. Milano, invece, si estranea da questo contesto. Ad oggi, l’attenzione del mondo è posta sull’intelligenza artificiale e gli imprenditori lombardi sono in curiosa attesa di capire quali vantaggi potranno trarne da questo nuovo strumento. “Ci sono molte cose – conclude Belloni – che devono essere meglio capite in termini di utilizzo concreto. C’è la necessità di comprendere bene come le intelligenze artificiali possano cambiare i processi aziendali. L’accelerazione recente con Chat-Gpt è grandissima. Più che altro ti mette nella condizione di essere più produttivo, di fare più cose contemporaneamente. Ci vedo tantissime possibilità: per esempio accelerare la ricerca medica e di fare simulazioni in tempi rapidissimi, l’interazione tra intelligenza artificiale e calcolo computazionale tu puoi fare delle cose in tempi compressi incredibili”. Chissà come reagirebbe Fantozzi se venisse catapultato nella Milano di oggi.
Milano col coeur in mano
Milano col coeur in man, si diceva un tempo: città generosa dedita all’integrazione. Sono oltre novecento le associazioni di volontariato che operano sul suolo metropolitano. Dal sociale al culturale, dal creativo al religioso, dall’ambientalista all’animalista: ogni associazione, in ciascun ambito, mantiene la propria unicità.
Giovani donne e donne si uniscono alle cooperative con l’unico intento di fare del bene. “L’Italia è un Paese che per certi aspetti si regge sul volontariato”, racconta Mario Furlan, fondatore di City Angels, un’associazione di volontari di strada. “Noi aiutiamo chiunque abbia bisogno”, giorno e notte viene dato un sostegno a migranti, senzatetto, tossicodipendenti, etilisti. Ma anche “al turista che si è perso, oppure all’anziana con le borse pesanti, fino alla signora che chiede di essere accompagnata per evitare spiacevoli incontri”.
Una Milano che non si volta dall’altra parte e che interviene per chi ha bisogno. Mario Furlan racconta il suo passato, dall’esperienza come giornalista alla decisione che gli ha cambiato la vita: “In un certo momento ho sentito un richiamo, una vocazione. Mi sono detto che non voglio solo scrivere quello che vedo, ma voglio riuscire anche ad incidere sulla realtà circostante. Durante l’attività giornalistica, sentivo che c’era qualcosa che mi mancava. Da ragazzo avevo fatto volontariato, sia per aiutare i senzatetto in stazione, sia per aiutare gli animali bisognosi. Mi sono così licenziato per dare vita ad un’associazione di angeli di strada”.
Nel corso degli anni l’Italia è cambiata. Il pessimo periodo economico, nonostante non abbia rallentato lo sviluppo di Milano, ha gravato particolarmente sulle spalle dei suoi cittadini. Ad oggi, circa duecento mila persone vivono in condizioni di povertà alimentare. “Rispetto a trent’anni fa – spiega Furlan – c’è più precarietà, ci sono più senzatetto, c’è più immigrazione e, soprattutto, sono in aumento dei malati di mente in giro per strada”; specchio di un malessere psicologico che si sta diffondendo nella società.
I clochard sono per lo più stranieri che, senza lavoro e senza famiglia, si abbandonano alla vita di strada. “Sono persone disperate che non hanno nulla. Gli offriamo da mangiare, coperte e sacchi a pelo. Abbiamo alcuni centri di accoglienza che li possono ospitare e sostenere dal punto di vista materiale e psicologico”. Una vita oltremodo dura. È sufficiente una piccola incertezza per cadere nel vortice delle droghe e della violenza. Non è un caso se i crimini legati allo spaccio sono in aumento.
Nonostante il grande supporto che le associazioni danno alla società, lo Stato pare essere indifferente a questi gesti. Solo grazie all’intervento delle associazioni, le persone che ricevono aiuto possono nutrire una piccola speranza di riscatto. Idealmente, in un Paese civile, liberale e sociale non dovrebbero esistere associazioni di volontariato a tutela degli ultimi, proprio perché dovrebbe essere lo Stato stesso ad intervenire. Invece, “il sistema Italia fa acqua da tutte le parti. Se non ci fossimo noi – sostiene Furlan – ci sarebbero grossi problemi. Per come stanno le cose, credo che il compito dello stato sia quello di aiutare il volontariato, mentre spesso non è così. Ci riempiono di scartoffie burocratiche che ci fanno perdere soldi e tempo”.
Ci troviamo di fronte ad un apparato che si lagna e si ritorce su sé stesso. Questo è lo specchio di una piccola parte di popolazione inghiottita e sputata da un Sistema che non lascia spazio a persone che chiedono aiuto. Lo Stato democratico è disattento nei loro confronti, dimenticando che la difesa delle classi sociali inferiori è il motivo per cui è nato. Senzatetto, drogati, alcolizzati ed immigrati fanno tutti parte di una grandissima categoria: gli esclusi. Con il passare del tempo, questa categoria sta crescendo e con essa monta un senso di rabbia e di rancore. Purtroppo, il mondo non è fatto solo di vincenti, ma ci sono anche persone più sfortunate e fragili. Sarebbe più semplice dimenticarsene, se non fosse che a turno ognuno può fare parte di questa categoria. Lo Stato sociale è nato proprio per sorreggere chi non ce la fa. Dal momento che questo non avviene, non dovrebbe ostacolare chi assolve questo incarico al posto suo.
Università irrequiete
Scriveva Piovene: Premetto però che Milano è l’unica città d’Italia in cui non si chiami cultura soltanto quella umanistica. Non vi è la mania delle lauree e sono cultura a Milano anche le capacità tecniche. Salendo poi di grado la cultura è illustrata dalle due massime scuole della città, il Politecnico e l’università Bocconi.
Il Politecnico di Milano vanta la fama di essere una delle migliori università d’Italia e d’Europa. A livello mondiale è nelle prime posizioni per l’insegnamento di ingegneria. Record che tengono alto il nome del Politecnico e i docenti lo sanno bene. Camilla, studentessa di ingegneria gestionale, racconta come negli anni i professori abbiano sempre cercato di mantenere alta la preparazione degli studenti: talvolta con metodi anche molto estremi. L’ambiente crea molte pressioni durante gli esami, non solo per la mole di lavoro che gli studenti sono costretti ad imparare, ma anche per le modalità di valutazione degli insegnanti: “C’era una sorta di intimidazione psicologica che sicuramente non aiutava. I professori pretendevano molto e quando ti vedevano in difficoltà oppure in ansia, non facevano nulla per darti una mano. Anzi, ti martellavano ancora di più. Se si accorgevano che un certo argomento non lo sapevi, potevi star certo che ti chiedevano solo quello. A quel punto l’esame era praticamente perso”. Capita spesso che studenti escano in lacrime dall’aula per la frustrazione o per le forme prepotenti con cui si è tenuto un colloquio d’esame. Ironicamente, Camilla racconta che il Politecnico è una “scuola di sopravvivenza”. Tra il primo e il secondo anno più del trenta per cento degli studenti lascia il corso. Percentuali che rimangono invariate – oppure crescono – negli anni successivi. “Se reggi la pressione – continua Camilla –, il Politecnico ti tempra molto. Spesso è più importante il come gestisci un problema, piuttosto che il problema stesso. In certi versi, ti prepara alla vita, alla realtà che c’è fuori. Non è solo un’università dove studi e consegni gli esami”.
Nell’esperienza di Camilla solo pochi docenti le sono stati vicini durante l’esperienza accademica. La maggior parte non danno confidenza e trattano gli studenti “a pesci in faccia”, sminuendoli nel loro lavoro. Come se un certo atteggiamento influisse nel tenere alto il nome del Politecnico di Milano a livello mondiale.
Ma ha veramente senso tutto ciò? Certo, metodi duri possono rafforzare la resistenza degli studenti, preparandoli al meglio al mondo del lavoro. Ma è sicuro che esaminare con l’obiettivo di bocciare sia uno di questi? Gli approcci educativi dovrebbero essere progettati per sostenere il successo di tutti gli studenti, offrendo loro le risorse e il supporto necessari per raggiungere obiettivi accademici e professionali. La funzione dell’Università sarebbe quella di formare e traghettare i ragazzi nel mondo del lavoro, senza però sminuirli con metodi polarizzanti.
Ormai da anni il Politecnico aspira a includere, nei propri corsi, sempre più studenti provenienti dall’estero. Di fatto, “già dal primo anno – racconta Camilla – ci avevano avvertiti che uno degli obiettivi di questa università è di far accedere alle magistrali e ai master solo le eccellenze triennali. Avevo la sensazione che ci stessero mettendo in guardia. Probabilmente, il loro scopo è di far crescere il prestigio della struttura dando più spazio a chi viene da fuori”.
Di conseguenza, i posti sono sempre meno e i requisiti di accesso sono sempre più stringenti. La competizione per essere selezionati diventa più ardua. Una situazione di stress non indifferente. Vorrei raccontare questa storia che rende bene l’idea dello stato d’animo che molti studenti sono costretti a provare quando si trovano davanti a un test di selezione: “Il professore lesse il regolamento, ci spiegò come funzionava l’esame, diede le istruzioni burocratiche per compilare e chiudere la busta in cui avremmo infilato i fogli d’esame. Poi sibilò: «Se volete, fate pure copiato. Considerate solo che chi copia, alla fine, potrebbe entrare al posto vostro». Poi si mise a leggere il giornale, e non ci guardò più”. Per fortuna si chiama Università Statale Politecnico di Milano. A fronte di un numero crescente di richieste di iscrizione, si è scelta la strada più facile stabilendo un tetto alle immatricolazioni, piuttosto che investire in strutture, edifici e progetti per rafforzare gli insegnamenti.
Neon – Erano le ali
Milano di notte si traveste. Dalla vivace frenesia del giorno si entra in un’altra dimensione. Il traffico sparisce. Il buio e il silenzio salgono e immergono le strade. Tutto appare più tranquillo. Appare, perché non appena volti l’angolo senti un vociare confuso. All’improvviso, puoi trovare una folla che si raduna attorno a locali che fanno della vita notturna il proprio business. La sera, così, diventa il momento in cui ragazzi e adulti si radunano davanti a una birra per chiacchierare, fumare e rilassarsi dalle fatiche quotidiane; per altri, invece, diventa l’occasione per ballare e dare sfogo al proprio essere. Le discoteche sono, in teoria, un punto di riferimento per la gente della notte. Per rendere bene l’idea, prendiamo in prestito le parole di Marracash: Luci dei club, baci dei flash. Ori e gioielli che accecano i re. Lampi di neon squarciano il cielo.
Con il passare delle stagioni, le abitudini sono un po’ cambiate. Come spiega Massimo Carzaniga, promoter e organizzatore di eventi serali, “i locali erano un luogo di conoscenza. Da giovane andavo a conoscere la gente. Erano posti di incontro e socialità”. C’erano le grandi compagnie, che in una serata occupavano un intero club. Ora è difficile che questo avvenga. “Quando ho iniziato io – ricorda Carzaniga – i locali di Milano erano pieni dal lunedì alla domenica. Sette giorni su sette, tutte le sere trovavi quattro o cinque club pieni. Oggigiorno non è più così. In una città come Milano – che non è proprio un paesino – fai fatica a trovare situazioni simili”.
Il calo evidenzia una Milano notturna in crisi. I giovani hanno trovano altri modi per divertirsi. Le discoteche non sono più un riferimento quotidiano, come avveniva in passato, ma si stanno trasformando in luoghi dove passare una serata diversa rispetto al solito. “Oggi viene meno il lato artistico e il divertimento. Il nostro mercato sta diventando una vetrina: i clienti non ballano più. È tutta un’immagine in cui il divertimento è passato in secondo piano. È più importante far vedere che mi sto divertendo sui social ad altre persone che non ci sono, piuttosto che divertirmi realmente. È questa la cosa brutta e sta ammazzando il nostro mercato. Se oggi una persona entra nelle discoteche può anche vedere gente seduta sui divani con i telefonini”. Un’immagine che fa pensare: quel tipo di intrattenimento sano che c’era un tempo può essersi perso per strada con l’avvento dei social.
Quel tipo di svago era sano probabilmente perché aveva un forte legame con la realtà e la propria esperienza. Un ragazzo rideva senza l’ansia di mostrarlo. Oggi, se un giovane non si diverte, per non cadere nel vortice del mi sento uno sfigato, mostra il contrario. Si vuole che i ragazzi sostituiscano sempre di più le esperienze reali con quelle digitali: ogni aspetto della vita viene postata ed è tutto una promozione della propria immagine. Per capire bene il concetto, facciamo un esempio: cinque ragazzi si fanno una foto in discoteca davanti allo specchio. Lo scatto dovrebbe essere un momento che congela un attimo nell’eterno, trasformando quell’esperienza reale in un ricordo concreto che puoi riprendere in ogni momento. Ognuno di loro posta sui social quella foto: apparentemente sembrano tutte uguali, ma se osservi bene, puoi notare come ogni ragazzo abbia caricato la foto in cui lui è venuto meglio e gli altri peggio. La trama che si è intessuta attorno alle foto e al desiderio di apparire ha annacquato momenti di vera socialità. Viene da chiedersi come poter sfuggire a questa logica soffocante e divorante.
Il cuore che batte
Nella prima metà del Novecento un certo Winston Churchill diceva che gli italiani perdono le partite di calcio come se fossero guerre e perdono le guerre come se fossero partite di calcio. Certo, una sentenza che non mette in buona luce lo spirito del nostro Paese. Però, fa riflettere sul calore degli italiani quando si parla di sport. E, in particolare, di calcio. Piaccia o meno, è l’argomento più discusso e trattato in televisione, nei bar e nelle case delle persone. Riesce a mettere d’accordo profili inimmaginabili. Probabilmente lo stadio è rimasto uno dei pochi luoghi in cui imprenditori e dipendenti, poveri e ricchi, donne e uomini si possono ritrovare nello stesso momento. Come racconta Paolo Condò, giornalista e scrittore che ha fatto del racconto del calcio il proprio lavoro, “lo stadio è per antonomasia il posto in cui possono entrare tutte le classi sociali”.
Milano, in questo senso, è una città molto particolare. Ama il tifo, ama il grande calcio, ama provare affetto attorno alla propria squadra di appartenenza: “E’ una città che vuole l’alto livello. Se le viene dato allora si presenta e spende. È più facile che si lamenti del basso livello della squadra piuttosto che del costo dei biglietti”. Tutti i manager sportivi e dello spettacolo si trovano, spesso, in difficoltà quando devono offrire un evento alla città, perché gli abitanti sono ormai abituati a standard elevati, alle emozioni forti che fanno battere realmente il cuore. Però, “se offri al milanese – sostiene Condò – uno spettacolo adeguato vai sempre sold-out”.
Simbolo della Milano sportiva è San Siro, teatro del calcio, palcoscenico ambito da giocatori, artisti e cantanti. La sua platea è capace di radunare oltre 75 mila tifosi. Il boato che accoglie le squadre all’ingresso del campo viene ricordato da molti calciatori come uno dei momenti più emozionanti della propria carriera. “Ricordo – continua Condò – la prima volta che ci sono stato, all’epoca avevo circa venticinque anni. Ricordo l’emozione di entrare in questo stadio e avevo la sensazione di aver fatto bene a lasciare la mia città d’origine per venire a Milano”. In questi anni si sta parlando di progetti per modernizzare o, addirittura, sostituire San Siro. Dal punto di vista industriale, certo, sarebbe meglio fare un nuovo stadio più attrezzato di servizi e di negozi che esaltino l’esperienza sportiva per i tifosi. Però San Siro è uno di quei luoghi che rende unica Milano. Ogni persona è legata affettivamente allo stadio. E quando una struttura entra così tanto nel cuore, si fatica a vedere altre costruzioni al suo posto.
Nel corso degli ultimi anni, l’affetto per il mondo dello sport è cambiato e cresciuto. In questo senso, la forzosa distanza provocata dalla pandemia ha contribuito alla voglia di fruire di certi eventi. Gli sfottò, poi, attorno al mondo del calcio accrescono il legame tra tifoso e squadra di riferimento. Milano “da questo punto di vista è stata la migliore dei laboratori. Ci si prendeva in giro bonariamente, certe battute facevano proprio ridere. Ricordo il vicepresidente dell’Inter, Giuseppe Prisco era una delle persone che andavo ad intervistare spesso. Una battuta famosa dell’avvocato era: Quando stringo la mano a un milanista, poi me la lavo. Quando la stringo ad uno juventino, conto poi le dita. Una battuta meravigliosa, ironica, divertente e, allo stesso tempo, pungente. Però faceva ridere anche milanisti e juventini”. Con l’avvento dei social e l’astinenza indotta dal Covid, un certo tipo di umorismo non si può più usare senza essere fraintesi. Talvolta, il senso di appartenenza per una squadra può degenerare in forme di ossessione e fanatismo. Allora il dialogo si chiude e l’ironia, anche disinteressata, viene disprezzata. “Oggi una battuta come quella dell’avvocato Prisco non potresti mai farla senza il rischio di venire sepolto dalle contumelie delle due tifoserie rivali”.
Un aspetto che dovrebbe far riflettere il mondo di oggi, che spesso vede nei giochi sportivi un perfetto canale per sfogare frustrazione e rabbia. I commentatori – se così si possono chiamare – più seguiti su internet sono i più cattivi e sarcastici. “Il calcio è lo sport più bello al mondo”: perché dovremmo inquinarlo con certi estremismi?