Suor Nabila Saleh, cattolica egiziana, ha vissuto a Gaza per 13 anni sotto il governo fondamentalista di Hamas. Prima del 7 ottobre 2023, è stata per molti anni direttrice della scuola privata più grande della Striscia dove gli alunni, musulmani ma non solo, imparavano i valori della convivenza e del pluralismo. In occasione dell’evento “Il grido di Gaza” al Centro Pime di Milano, ha raccontato la sua esperienza.
«Dal 7 ottobre siamo spaventati. A causa dei bombardamenti, sono morti venti ragazzi e tre insegnanti». Inizia così la preziosa testimonianza di suor Nabila, cattolica araba della Congregazione del Rosario di Gerusalemme. Per tutta la durata dell’intervento, incalzata dalle domande della giornalista del magazine del Pime “Mondo e Missione” Chiara Zappa, parla con la voce rotta, e con gli occhi proiettati nel vuoto della sala, come se nella sua testa stesse ripescando gli orrori di quei momenti.
Arrivata a Gaza nel 2007 subito dopo la «resa dei conti» tra Fatah e Hamas, suor Nabila descrive la città e la Striscia prima dello scoppio della guerra tra Israele e Hamas. «Conoscevo la situazione a Gaza, ma non sapevo con precisione a cosa sarei andata incontro – dice –. Allora come oggi, il sentimento diffuso era lo stare insieme ed essere compatti per portare avanti la battaglia della creazione e del riconoscimento di uno Stato palestinese».
Una delle attività principali della Congregazione del Rosario di Gerusalemme (a cui appartiene suor Nabila) era la gestione della scuola privata più importante della Striscia, struttura che oggi quasi non esiste più. «I ragazzi desideravano tanto studiare – dice con le lacrime agli occhi –. Desideravano soprattutto andare fuori, perché la Striscia è come una gabbia. Ci sono tantissimi ragazzi molto bravi, desiderosi di studiare ed essere attivi per il proprio Paese. Con i bombardamenti sono rimasti traumatizzati e abbiamo fatto tanta attività psicologica per aiutarli, per far uscire tutta la paura». La scuola che suor Nabila gestiva insieme alle consorelle raccoglieva non solo ragazzi cristiani, ma anche figli di famiglie di Hamas e della Jihad islamica. «Questo perché è una scuola prestigiosa dove insegniamo i valori della convivenza e della tolleranza. Di recente, è stata emanata una legge per cui i musulmani non possono festeggiare con i cristiani. Noi però a scuola qualcosa facevamo, soprattutto decorazioni. Lo stesso vale nel periodo del Ramadan, durante il quale gli studenti musulmani sono liberi di intonare cori. Solo così possiamo educare i ragazzi al rispetto dell’altro e delle religioni altrui».
«I ragazzi desideravano tanto studiare – dice suor Nabila con le lacrime agli occhi –. Desideravano soprattutto andare fuori, perché la Striscia è come una gabbia. Ci sono tantissimi ragazzi molto bravi, desiderosi di studiare ed essere attivi per il proprio Paese. Con i bombardamenti sono rimasti traumatizzati e abbiamo fatto tanta attività psicologica per aiutarli, per far uscire tutta la paura»
Essere cristiani oggi a Gaza, sotto il governo fondamentalista di Hamas, non è affatto semplice. Nel giro di pochi anni, i cristiani sono passati da 9mila a poco più di mille, in mezzo a più di due milioni di musulmani. Con la voce tremante, suor Nabila afferma che «la libertà religiosa non c’è. La vita per noi cristiani è difficile ma resistiamo. Tutti quelli che sono rimasti lo hanno fatto perché hanno le loro proprietà in città e soprattutto perché amano la loro terra». Ultimamente, però, secondo suor Nabila, Hamas si sta aprendo. Descrivendo la vita delle ragazze cristiane che difficilmente in passato potevano uscire senza il velo, afferma che i fondamentalisti «pensano di rappresentare i territori palestinesi e intendono dare un’immagine di apertura all’esterno», pur non godendo del pieno appoggio della popolazione che reputa il gruppo fondamentalista la causa del conflitto. «Essere una suora nella Striscia, servire una nazione e un popolo è bellissimo, ma anche molto difficile perché abbiamo tanti obblighi – spiega –. Tantissima gente non sa chi siamo, non ci conosce: spesso ci guardano come se venissimo dallo spazio» afferma ridendo, un riso che contiene vari stati d’animo contrastanti tra di loro. Per sua stessa ammissione, c’è anche tantissima diffidenza nei loro confronti. «Una volta ero in un mercato popolare e una donna mi ha tirato via la croce», ricorda con non molto stupore, come se fosse qualcosa di normale.
Il 7 ottobre è stato un vero e proprio turning point per la vita nella Striscia e ovviamente anche per la Congregazione del Rosario di Gerusalemme a Gaza. «Quella mattina eravamo in chiesa e non potevamo immaginare potesse accadere una cosa del genere. Non sapevamo cosa fare. La parrocchia è lontana dieci minuti in macchina dalla scuola. Abbiamo quindi deciso di lasciarla lì e di andare a piedi. Dopo sette ore, Israele ha iniziato a bombardare e siamo rimasti nella scuola per undici giorni, durante i quali abbiamo accolto 70 persone. All’undicesimo giorno, il patriarca di Terrasanta ci ha chiamati per avvisarci che avremmo dovuto lasciare la scuola perché molto vicina a una postazione militare di Hamas, oggetto dei bombardamenti israeliani». Suor Nabila si ferma spesso durante il suo racconto e quando parla lo fa con la voce tremante, dalla quale traspare tutto il dolore di una donna che ha sofferto e continua a soffrire molto. I giorni successivi alla fuga dalla scuola non sono stati affatto facili. «Abbiamo trovato accoglienza nella chiesa latina e lì abbiamo passato le nostre giornate. Avevamo particolare premura per i bambini e cercavamo di intrattenerli con delle attività, ma immaginate fare questo durante i bombardamenti», dice la suora con le lacrime agli occhi.
Non solo lo stato psicologico dei bambini, ma anche il problema del cibo la tocca nel profondo. «Prima della guerra avevamo tante cose da mangiare. Poi, però, il governo israeliano ha bloccato gli aiuti internazionali, rendendo difficile il mantenimento di 365 persone, soprattutto bambini e ragazzi. È stato un periodo lungo e difficile, durante il quale ci hanno aiutato il Kuwait e soprattutto il Re di Giordania». Poi una rivelazione, che rende perfettamente la criticità di quei momenti. Dopo un breve momento di silenzio e con la voce rotta, suor Nabila ammette di essere arrivata «a mangiare il cibo degli animali».
Dopo sei mesi, lei e altri venti cristiani sono riusciti a lasciare la Striscia, passando per il valico di Rafah. «Lungo il tragitto siamo stati bloccati in tre checkpoint: vi lascio immaginare l’ansia ogni volta che entravamo in quei locali dove ci controllavano i documenti. Avevamo paura di morire in quelle strade disseminate di soldati e carrarmati israeliani perché, fossimo morti lì, nessuno ci avrebbe seppellito. Arrivati a Rafah, abbiamo trovato chiuso il valico che ci avrebbe permesso di raggiungere l’Egitto. Dopo una notte di attesa, siamo riusciti a passare e a raggiungere Il Cairo la mattina successiva».
A conclusione della sua testimonianza, l’appello accorato di suor Nabila è uno solo. «Alla comunità internazionale chiedo la pace. È difficile vivere in tempo di guerra e chiedo ai governanti questo. Abbiamo vissuto sulla nostra pelle la mancanza dei diritti umani che rimangono solamente scritti sulle carte. Chiedo la pace per i palestinesi e gli israeliani, ma soprattutto per i palestinesi gazawi perché hanno vissuto e vivono tuttora una realtà difficilissima».