La Turchia è da sempre un ponte tra l’Europa e l’Asia e un crocevia di popoli differenti. Non sorprende quindi che la sua città più importante, Istanbul, fosse stata scelta per la firma della Convenzione per la prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica l’11 maggio 2011. Il trattato, comunemente noto come Convenzione di Istanbul, era un’iniziativa del Consiglio d’Europa, ma la Turchia si distinse come la sua principale promotrice al punto da diventare il primo Paese a ratificarlo.

Il trattato si compone di 81 articoli che si poggiano su 4 pilastri: prevenzione, protezione e assistenza dei soggetti a rischio, perseguimento dei responsabili di violenze e coordinamento delle politiche da attuare. Le particolarità del documento sono l’ampiezza del concetto di violenza, comprensiva anche di quella psicologica, e il rilievo dato al contrasto ad ogni genere di discriminazione.

Recep Tayyip Erdoğan, presidente della Turchia dal 2014

Recep Tayyip Erdoğan, presidente della Turchia dal 2014

L’indebolimento dello stato di diritto in Turchia (acceleratosi dopo il fallito golpe del 15 luglio 2016) ha però vanificato qualsiasi effetto pratico della Convenzione. Il 20 marzo il presidente Recep Tayyip Erdoğan ha promulgato un decreto che stabilisce il ritiro immediato del paese dal trattato e senza appoggiarsi ad una maggioranza parlamentare come richiesto dai partiti d’opposizione. La decisione unilaterale del governo di Ankara ha suscitato sgomento nelle principali cancellerie internazionali, ma sono soprattutto le piazze della Turchia il baricentro di una protesta che rappresenta la prova del malcontento per l’ulteriore attacco del leader del partito Giustizia e Sviluppo (AKP) alle libertà fondamentali e ai diritti dell’uomo.[

«Quando la Turchia decise di promuovere la Convenzione di Istanbul la quantità di femminicidi si ridusse di molto. Da allora non è stato però fatto nulla e i femminicidi sono aumentati costantemente». Zeynep Kiziltunc è una giovane donna turca, laureatasi in Architettura al Politecnico di Milano. Sebbene viva da tempo in Italia, Zeynep è molto sensibile a quanto sta accadendo nel suo paese, ma senza che l’amarezza danneggi la spontaneità delle sue risposte.

Le domando per quale motivo la Turchia sia passata da principale promotrice a primo paese ad uscire dalla Convenzione. «Il governo ha deciso di ritirarsi per compiacere ai gruppi  più conservatori e legati alla tradizione religiosa» – spiega – «Questi affermano che la Convenzione di Istanbul indebolisce i valori della famiglia e promuove le istanze delle comunità LGBTQ nella cultura turca». Le motivazioni di chi si oppone al trattato non sono un fatto circoscritto alla Turchia: tra il 2018 e il 2019 Bulgaria e Slovacchia non l’hanno mai ratificato criticando l’approccio “progressista” del documento ai diritti delle comunità LGBTQ e alludendo a minacce alla famiglia tradizionale. Nell’estate del 2020 la Polonia ha dichiarato l’intenzione di valutare un ritiro di Varsavia dalla Convenzione, mentre il parlamento di Budapest ha approvato una mozione per impedire ulteriori concretizzazioni del trattato sia in patria sia in altri paesi europei.

«Lui ha letteralmente detto che la Convenzione di Istanbul non funzionerà perché i valori della famiglia nella società turca devono essere protetti. Ma cosa intende per valori della famiglia? Le donne devono stare a casa? Cucinare per il loro marito e i loro figli? Non dovrebbero lavorare? Non devono fare niente? Solo obbedire alle regole? Obbedire al marito?»

«La Convenzione non è solo per le donne, ma per tutti coloro che hanno bisogno di protezione, i bambini e le comunità LGBTQ ad esempio» sottolinea Zeynep, rimarcando con forza la gravità di un atto che in occidente rischia di essere sottovalutato. Sui media occidentali spesso si tende a raffigurare la Turchia come un paese diviso in due: a occidente coloro che si oppongono alle politiche e alla leadership di Erdoğan e ad oriente i suoi sostenitori. Per Zeynep questa distinzione è solo parzialmente corretta. Però è parlando del presidente che si sente in dovere di far capire le pesanti responsabilità della massima carica dello stato. «Il presidente Erdogan ha praticamente detto che donne e uomini non sono uguali. Non possono essere uguali e che il meglio che le donne possono fare è essere madri» – racconta – «Lui ha letteralmente detto che la Convenzione di Istanbul non funzionerà perché i valori della famiglia nella società turca devono essere protetti. Ma cosa intende per valori della famiglia? Le donne devono stare a casa? Cucinare per il loro marito e i loro figli? Non dovrebbero lavorare? Non devono fare niente? Solo obbedire alle regole? Obbedire al marito?». Parlare di Erdoğan fa scomparire l’amarezza in Zeynep, lasciando il posto ad una rabbia a stento repressa e ad una sofferenza tangibile come se anche lei fosse nelle piazze assieme ad altre donne a gridare «vogliamo la Convenzione di Istanbul applicata. Non vogliamo ritirarci. Vogliamo essere protette e non uccise nel cuore della notte».

Il coraggio di queste donne, pronte a sfidare la repressione della polizia pur di far sentire la propria voce, sembra incutere timore a quanti rifiutano di riconoscere alle donne dignità e libertà troppo a lungo negate. Così questi individui danno sfogo ai loro istinti più bassi con commenti offensivi rilanciati sui social network. Con le lacrime agli occhi Zeynep sceglie un solo aggettivo per descrivere questi post: mean, ovvero meschini.

È difficile comprendere l’insensibilità ad un fenomeno come quello dei femminicidi che in Turchia ha raggiunto proporzioni allarmanti: dall’inizio dell’anno sono state uccise ben 77 donne, mentre nel 2020 le vittime sono state 409. Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità circa il 38% delle donne in Turchia ha subito violenza da parte del proprio partner.

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Donne in piazza contro il ritiro della Turchia dalla Convenzione di Istanbul

Eppure in mezzo a tanta sofferenza c’è una piccola speranza. Le ragioni della protesta hanno sensibilizzato molte più persone di quanto ci si potesse aspettare. Ci spiega Zeynep che oltre alle donne si sono uniti studenti, ma anche famiglie tendenzialmente conservatrici che hanno sperimentato in prima persona questo tipo di dolore. Ma allora cosa unisce in una sola lotta persone così diverse tra loro? Zeynep afferma semplicemente che si tratta di «persone che credono nei diritti umani perché questo è un tema che preoccupa molti». E queste persone sono e saranno sempre di più.