1979, Ahmed Ali Giama, 35 anni, bruciato vivo. 1985, Giorgio Valent, 16 anni, accoltellato perché colpevole di essere uno “sporco nero”. 1989, Jerry Essan Masslo, 30 anni, assassinato. 2009, Abdul Salam Guibre, 19 anni, ucciso a colpi di spranga. Ed ancora Diop Mor e Samb Modou nel 2011, Soumaila Sacko e Assane Diallo nel 2018, Modou Diop nel 2019.  No, non siamo negli Stati Uniti “razzisti e bifolchi”, ma in Italia, l’ennesimo Paese nel mondo sulle cui terre, spiagge, città, pesa una lunga lista di vittime innocenti, morte a causa del diverso colore della pelle.

La nostra memoria è corta. Ci si dimentica facilmente di scandali politici recenti, figurarsi anche solo lo sforzo che serve per ricordare il nostro passato da migranti, o quella stantia carta ammuffita chiamata Costituzione. Era il 1 gennaio 1948 quando entrò in vigore, frutto dei lavori dell’Assemblea Costituente e della lotta della Resistenza contro il regime nazifascista. La neonata Repubblica si sarebbe eretta finalmente su principi sociali, ma soprattutto umani. Uno fra i primi – sancito all’ Art. 3 – quello della «pari dignità sociale, dell’ugualizzano davanti alla legge senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinione politiche, di condizioni personali e sociali».

È assurdo e triste allo stesso tempo constatare come ancora oggi, nel 2020, sia necessario rispolverare assunti che, per loro natura, dovrebbero essere parte integrante del nostro essere e della nostra comunità. Il razzismo non è un problema lontano, non è una faccenda puramente americana, documentata e denunciata attraverso immagini, video, appelli, che circolano sui social media. Esiste anche qui, tra noi, e forse anche (inconsapevolmente) in noi. E quanto abbiamo visto a Roma, Milano, Torino, Bologna lo scorso 7 giugno ne è la prova.

«Qui non tendiamo a sparare per le strade, ma comunque blocchiamo le frontiere e chiudiamo i porti» 

«Sta aumentando la paura nei confronti del diverso, da parte di tutte le popolazioni» dice Haroun Herry Fall, 24 anni, chiamato dal collettivo Women’s March per prender parola durante la manifestazione Black Lives Matter di Roma.   Uno dei soli cinque attori non bianchi che hanno potuto frequentare il Centro sperimentale di cinematografia sin dalla sua fondazione nel 1935, Haroun vede il suo lavoro anche come uno strumento di riscatto sociale, «da utilizzare per portare l’attenzione mediatica su problemi che in realtà non toccano solo gli Stai Uniti ma anche l’Italia, sotto molti punti di vista». Seppur tenendo bene in conto le diversità esistenti tra il razzismo statunitense e quello italiano – «Qui non tendiamo a sparare per le strade, ma comunque blocchiamo le frontiere e chiudiamo i porti» – occorre tuttavia sottolineare che il nostro più grande ostacolo da abbattere è quello del demagogismo. «I politici trasmettono informazione sbagliate, di paura. Ci viene detto che le persone diverse da noi potrebbero rubarci il lavoro, i soldi, stuprare le nostre donne. Quando in realtà le persone che arrivano in Italia non potrebbero mai occupare la nostra stessa posizione sociale, perché, a prescindere, non hanno le nostre stesse possibilità. E allora, mi domando: come si fa ad aver paura di qualcuno che già, sin dall’inizio, pur avendo tutte le carte in regola per concorrere insieme a te, non è però collocato sul tuo stesso piano?».

Nel suo intervento pubblico a Roma, Haroun fa notare quanto sia difficile incrociare un autista d’autobus nero, un taxista nero, persino un attore come lui nero. «E questo non perché nessun un uomo di colore abbia la patente o magari aspiri a lavorare nel mondo del cinema o dell’arte». Persino l’idea di un medico nero è inconcepibile in Italia, e «se anche qualcuno riuscisse a diventarlo, le persone, forse, non si farebbero curare da lui. È successo due anni fa, a Cantù, nel comasco, al dottore Andi Nganso».

  «Credo che debba essere lasciato spazio a tutte le culture di potersi esprimere, creando al contempo i requisiti per farlo.» 

Forse un retaggio culturale, una macchia che, ignari, ci impedisce, sin dalla nostra nascita, di essere limpidi e puri, alimentata dal troppo spazio concesso dai media a comunicazioni fuorvianti: «Se si veicolano sempre – continua Haroun – messaggi del tipo “dieci migranti hanno stuprato una donna” e se si propone continuamente un terrorismo psicologico del genere, prima o poi è normale che si indurrà la popolazione a pensarlo realmente». Combattere contro tali insensati stereotipi, accettati senza se e senza ma, è quindi un po’ come combattere contro mulini a vento. Alla stregua di moderni Don Chisciotte possiamo solo lottare per sradicare il male, puntando su un nuovo modo di educazione sociale. «Credo che debba essere lasciato spazio a tutte le culture di potersi esprimere, creando al contempo i requisiti per farlo. Quando vado a scuola devo avere la possibilità di avere un’insegnate di matematica o di storia nera; di avere un’insegnate di italiano italo-cinese, perché no?! Tutto ciò allo scopo di porre le basi per una società fondata sul melting pot». Istruire quindi sin da subito al diverso, alle altre culture, per imparare a guardare al di là di quello che ci si trova di fronte a livello estetico. «Vorrei che per un po’ di tempo – confessa Haroun – la gente diventasse cieca, per concentrarsi su come è realmente fatto l’individuo che si ha davanti, prima di poterla giudicare per il colore, l’odore…». 

«Le persone di colore di seconda generazione molto spesso in Italia non hanno mai avuto la loro età. Devono crescere un pochino più in fretta» 

Per la maggior parte di noi, italiani bianchi, rimane difficile comprendere alcune dinamiche esistenti, magari messe in atto senza consapevolezza né cattive intenzioni. Per Haroun però, nato e cresciuto a Torino, adottato da una famiglia italo britannica, il colore della propria pelle ha significato una crescita precoce ed un’infanzia forse troppo corta: «Le persone di colore di seconda generazione molto spesso in Italia non hanno mai avuto la loro età. Ad un certo punto entri in un meccanismo della vita in cui inizi a vedere cose che gli altri non notano, devi superare degli step, devi crescere un pochino più in fretta. I sentimenti che provi – tristezza, dolore, sofferenza, rabbia, ingiustizia, incomprensione, ma soprattutto voglia di riscatto – ti portano ad avere pensieri che normalmente un bambino non ha. Fino a realizzare poi che, se vuoi essere attivo all’interno della società, ogni mattina, quando ti svegli, dovrai dimostrare qualcosa a qualcuno, perché sennò non verrai mai preso seriamente. E tutto questo solo per come sei nato, per il colore della tua pelle». Dall’altro lato però questo spirito combattivo, ammette Haroun «è un motore di spinta maggiore, ti dà la carica».

Nelle parole, nel tono di voce di Haroun non si avverte nessun rancore, nessuna rabbia, per lui solamente veicolo di ulteriore distruzione e violenza. Forte, però, è la sua consapevolezza del tempo in cui viviamo, dell’importanza del non essere indifferenti a ciò che accade e soprattutto della necessità di abbattere ogni forma di ignoranza. «Mi auguro che tutto questo possa risvegliare le coscienze di ognuno di noi. Credo fortemente nell’essere umano, e nella sua inclinazione al cambiamento. L’unica cosa però, è che ora il cambiamento deve essere fatto all’interno del nostro cervello».