“Abbiamo passato un check point e poi hanno iniziato a sparare all’auto. Lui è stato colpito al collo, ci siamo divisi, lui è stato lasciato indietro”. Le parole di Juan Arreondo dal letto d’ospedale lasciano presagire la sorte del collega Brent Renaud, giornalista regista e produttore di documentari. Stava lavorando ad un progetto incentrato sulla crisi globale dei rifugiati in Ucraina, e voleva filmare la fuga dei civili sul ponte di Irpin. Nel documentare la guerra ha incontrato la morte.

Ad oggi sono cinque i reporter uccisi dall’inizio del conflitto in Ucraina, e sono almeno 35 i feriti. Pierre Zakrzewski (cameraman irlandese della Fox News), Okeksandra Kurshinova (giornalista ucraina), Yevhen Sakun (cameraman), Brent Renaud, Viktor Dudar (reporter ucraino) sono i nomi dei giornalisti che sono morti. Vite spente per il diritto di informare. Le parole su Telegram della responsabile per i diritti umani del parlamento ucraino Lyudmila Denisova sono di denuncia nei confronti delle responsabilità dell’esercit russo: “Ora gli occupanti stanno uccidendo e sparando sui giornalisti”.

In questo contesto, la morte di un giornalista durante un conflitto rischia di diventare la storia, e sopprimere la cronaca di quello che succede. Si creano incongruenze, come lo statement di Suzanne Scott, amministratore delegato di Fox News: “È con grande tristezza e angoscia che condividiamo la notizia riguardo al nostro amato reporter Pierre Zakrzewski”. Nessuna menzione alla producer locale ucraina Okeksandra Kurshinova, che era con lui: questa scelta ha scatenato molte polemiche nel mondo editoriale americano e nella comunità dei freelance.

Il giornalista, del resto non è protagonista degli eventi. Lo ribadisce spesso Livio Senigalliesi, fotogiornalista e saggista, una vita vissuta in prima linea: dal Ruanda ai Balcani, dall’Iraq all’Afghanistan. 40 anni di attività nel contesto di guerra insegnano molto, e sono in grado di far comprendere il modo per dare la giusta rilevanza ad un evento che di dignitoso non ha nulla. “Non capisco questo continuo esporsi in prima persona con il giubbotto con scritto press e l’elmetto. Io non l’ho mai messo, negli anni Ottanta e Novanta non avevamo la sensibilità di pensare alla nostra sicurezza. Non c’erano i corsi di preparazione che esistono oggi. Dovevamo essere agili, più veloci delle pallottole. La morte non fa sconti”. Rimane fondamentale “Comprendere il contesto di guerra. Quello che manca oggi è l’approfondimento, non si tiene conto del contesto e delle persone che passano accanto. Il giornalista oggi racconta sé stesso”.

Per Livio Senigalliesi è importante “comprendere il contesto di guerra. Quello che manca oggi è l’approfondimento, non si tiene conto del contesto e delle persone che passano accanto. Il giornalista oggi racconta sé stesso”

Anche la sicurezza degli invitati al fronte è un tema cruciale. I giornalisti rischiano spesso di essere intimiditi, molestati o aggrediti mentre svolgono il loro lavoro. La sicurezza, però, è cambiata negli anni: “Ci vuole tanta esperienza, che non vedo nei colleghi che stanno al fronte in questi giorni. Si sono lanciati per diventare famosi o vincere un premio, e non c’è cosa più sbagliata”. Prosegue: “Ai miei tempi eravamo tutti autodidatti: l’esperienza si costruiva negli anni, vivendo in quei contesti. La soluzione è quella di affiancarsi ad un giornalista esperto”.

Nel contesto di guerra è importante avere anche delle tutele per i giornalisti che lavorano sul campo. Con l’invasione russa dell’Ucraina, il Comitato per la protezione dei giornalisti CPJ (organizzazione indipendente che promuove la libertà di stampa in tutto il mondo)  dichiara e chiede la protezione dei giornalisti e degli operatori che stanno coprendo il conflitto. “Con la disinformazione che diventa sempre più uno strumento comune di guerra, il lavoro dei giornalisti e il flusso di informazioni libere e indipendenti devono essere protetti” afferma Robert Mahoney, direttore esecutivo di CPJ. Proprio la disinformazione con il tempo è diventata sempre più protagonista grazie ai social media, lo strumento migliore per far diventare vero ciò che vero non è. “Siamo dentro ad una grande trappola di una propaganda mediatica che passa attraverso di noi” commenta Livio “Abbiamo una grande responsabilità: quella di svelare questa trappola, non esserne vittima e non rendere vittime il lettore e il telespettatore.” Un esempio lampante sono i video dei bombardamenti all’ospedale pediatrico di Mariupol: “Ho fatto delle ricerche su Internet: quando ho ricevuto il video del bombardamento ho capito che si trattava di una notizia a metà. Prima di tutto non c’erano i crateri e i tetti non erano stati abbattuti. Le distruzioni sulla facciata sono state provocate da colpi di mitragliatrice.”

In guerra le prime vittime sono però i civili, impotenti di fronte ad una crudeltà che stravolge la loro quotidianità, mettendo al rischio le proprie vite. Livio Senigalliesi sostiene che “i giornalisti hanno una grande responsabilità. Dobbiamo avere rispetto per le vittime e per i profughi. Come si fa a fare una corrispondenza in una pseudo prima linea? Le immagini dei telegiornali hanno tutte delle ambientazioni in cui dietro c’è un grande vuoto. Sono le vittime che ci racconteranno attraverso le loro testimonianze quello che hanno vissuto, non siamo noi che ci dobbiamo inventare una narrazione.”

Il conflitto in Ucraina continua, ma la tutela dei giornalisti deve diventare sempre più efficace. Stare al fronte è una scelta. Per Livio“l’unico modo che ha un giornalista per raccontare un contesto di guerra è inserire nella narrazione entrambe le parti in lotta. Se non le raccontiamo tutte e due, non facciamo altro che essere la grancassa di una propaganda”.