«C’è una canzone di Lorenzo che dice “È sempre la stessa canzone che va, la stessa di 1200 anni fa”». Così, Saturnino Celani, bassista e storico amico e collaboratore di Jovanotti si riferisce alla canzone “È sempre la stessa canzone che va” del 1991 contenuta nell’album “Una tribù che balla”. «Per me questo è la musica – precisa il musicista –, una continua ripetizione di qualcosa che già esiste e ciclicamente si ripete portando con sé novità e cambiamenti. Ma è un rinnovamento positivo che contiene in sé il costante desiderio di essere sempre all’avanguardia».

Per Saturnino è semplice definire il mondo della musica di cui trent’anni fa è entrato a far parte, confermando la passione di sempre. «A quattordici anni guardavo i grandi palchi e dicevo che un giorno avrei suonato là sopra», precisa ricordando un percorso fatto di amore e collaborazione.

«La svolta è arrivata proprio grazie a Lorenzo – racconta Saturnino – che stava facendo i provini per formare un band da portare con sé in tour. Mi sono presentato e ho suonato davanti a lui. Da quel momento non me ne sono più andato e sono passati trent’anni». L’incontro è stato magico, un po’ come i tanti aneddoti raccontati dal bassista. «Lorenzo mi ha subito chiesto se sarei stato libero per i prossimi sei mesi – aggiunge –, guardava già avanti. Io l’ho seguito rifiutando un’altra offerta che in quel momento sarebbe sicuramente stata più redditizia, ma non continuativa. Nella sua proposta, invece, vedevo un futuro e un successo assicurati. Che poi è strano: si parla sempre di “successo”, ma è un termine al passato per definire qualcosa che deve ancora accadere».Saturnino: «Parliamo sempre di “successo” per qualcosa che deve ancora accadere»

Scherza, così, Saturnino ricordando come un vero e proprio colpo di fulmine l’abbia portato sulla strada giusta: «Quando si è giovani si tende a tenersi aperte tutte le vie possibili. Io in quel momento non ho avuto dubbi, è stato amore a prima vista, paragonabile a quello che oggi provo per la mia compagna di vita che, però, ho incontrato a cinquant’anni. Con Lorenzo, invece, mi è capitato a diciannove».

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Saturnino Celani e Jovanotti in “Lorenzo live 2018″

Così il musicista ha colto l’occasione della vita e ha indovinato. «Bisogna essere permeabili alle emozioni, cosa estremamente difficile perché queste fanno paura quando non si riescono a controllare. Tutti amano parlare di quello che provano, ma quando vivono un sentimento in purezza si spaventano», continua Saturnino che parla di emozioni anche, e soprattutto, quando si riferisce alla musica: «Per codificare l’ascolto di una canzone è necessario allenare il muscolo dell’emozione. Un brano può far piangere o provare gioia e serve una consapevolezza che possa preparare all’impatto».«Dobbiamo imparare ad allenare il muscolo dell’emozione», sostiene Saturnino

Per questo anche i riferimenti e le influenze musicali a cui si ispira sono tutte quelle che nel passato e nel presente lo hanno attraversato a livello emozionale: «La musica è un linguaggio che prima di tutto viene percepita. Sono capace di passare giornate intere solo ascoltando brani di altri senza suonare nemmeno una nota e stare incredibilmente bene, godendo di quel momento», aggiunge.

Collaborazione e umanità sono i due principali valori cui Saturnino fa riferimento nel portare avanti la propria attività di musicista, perché «la musica dal vivo ha un aspetto fortemente performativo che fa stare bene chi la suona e chi la ascolta». Questa è anche la chiave che permette al bassista di unire la vita dei grandi palchi e dei piccoli live: «I dj set che faccio ormai da quindici anni, come quelli sui Navigli, mi permettono di stare a contatto con le persone e di farle divertire. Questo per me è fondamentale, tanto che mi sento quasi in colpa a ricevere un corrispettivo imbarazzante per mettere la musica di altri. Più che un lavoro preferisco definirlo una “passione remunerata”», aggiunge sottolineando la visione romantica di un mestiere in cui è ancora possibile conservare il lato umano.«È stato un colpo di fulmine», racconta Saturnino descrivendo la collaborazione con Jovanotti

«Lorenzo per me è il fratello maggiore che non ho mai avuto. In questi anni ci siamo arricchiti a vicenda e il bello è che non siamo legati da nessun contratto», conclude Saturnino. E, nonostante dica di voler fare un nuovo disco da solista per mettersi alla prova, continua a vedere nelle collaborazioni musicali il fondamento di quella umanità che vive ogni giorno: «Oggi le nuove generazioni stanno creando nuove e interessanti commistioni, come l’ultima di Charlie Charles, Fabri Fibra, Dardust, Mahmood e Sferaebbasta, che personalmente mi piace molto (“Calipso”, ndr)».

È il segno, quest’ultimo, del rinnovamento e della musica “che viene e che va” per citare ancora una volta il collega Jovanotti. Un continuo ritorno che può riuscire a rispondere agli inevitabili cambiamenti degli ultimi anni. Lo conferma il produttore musicale Stefano Senardi che, dal punto di vista discografico, ha vissuto anni di profondi mutamenti. «Dagli anni ’80, quando ho iniziato, a oggi – precisa – il mercato è profondamente cambiato. Si è passati dal supporto fisico a un mondo completamente liquido, caratterizzato dalla pirateria prima e da Spotify e Youtube poi. Mi ritengo fortunato ad aver lavorato in un periodo in cui si andava ancora in giro a cercare gli artisti per firmare i contratti. Oggi, invece, le case discografiche acquisiscono gli artisti che fanno numeri e questi ultimi non ricevono i consigli necessari per affrontare il mondo della musica italiana».

In controtendenza, però, secondo Stefano Senardi c’è questo forte spirito di autogestione che i nuovi nuclei artistici appena nati stanno rivelando. «Per molti di loro servono ancora una programmazione e una progettualità diverse, ma devo dire che il fatto che il rock stia sta tornando dal basso è molto positivo», conclude il produttore che del rock e dell’indipendenza ha fatto il proprio manifesto lavorativo e artistico, accompagnando negli anni artisti come Carmen Consoli, Modena City Ramblers, Subsonica, Negrita, Afterhours e Litfiba.

Umanità e indipendenza vengono condivise anche dall’attività di Claudio Trotta, leader di Barley Arts, l’agenzia organizzatrice di eventi live che quest’anno celebra il quarantennale di attività. «Quando ho iniziato nel ’79 – precisa il promoter milanese – c’erano le radio libere e l’Italia era ancora esclusa dal carrozzone della musica dal vivo, più forte all’estero, soprattutto negli Stati Uniti e in Inghilterra».

Gli incidenti ai concerti degli anni ’76-’77, la filosofia della musica gratis e la mancanza di professionalità diffusa rispetto all’organizzazione dal vivo sono i principali fattori che per anni hanno tenuto il live lontano dalla scena italiana, lasciando piuttosto il primato alla musica riprodotta.

«C’era questa anomalia – continua Claudio Trotta – per cui si preferiva acquistare un vinile a 13-15 mila lire piuttosto che un biglietto per 2 mila lire». Un paradosso, quest’ultimo, se si pensa alla storia della musica che vanta migliaia di anni di riproduzioni dal vivo e poco più di un secolo di pubblicazioni fisiche.

«Ho iniziato a lavorare in un’Italia ancora esclusa dal carrozzone della musica live», spiega Claudio TrottaIn Italia, poi, l’anomalia era data dalle insite caratteristiche di un Paese da sempre attento all’aspetto musicale, che ha dato i natali ai più grandi compositori di opera e ha una storia di musica jazz molto consolidata. «Ho iniziato a lavorare – racconta il manager – in questo clima retrogrado che, però, era anche fatto di corretta informazione: si dava più spazio alla musica nei quotidiani e nelle riviste specializzate che oggi non sopravvivono. Io ho promosso musica di qualsiasi genere e mondo, senza alcuna distinzione di colore, ma caratterizzata da tanti colori diversi, utilizzando strutture in cui eravamo ospiti».

Il mondo del live italiano, infatti, soffre ancora di una grave mancanza, quella dell’assenza di luoghi esclusivamente destinati all’esecuzione musicale: «Abbiamo sempre organizzato eventi – precisa il leader di Barley Arts – negli stadi e nei palazzetti nati per lo sport, nei teatri costruiti per la prosa e per l’opera, nelle discoteche fatte per ballare e negli spazi naturali o pubblici come grandi distese di asfalto. Ancora oggi mancano strutture per i piccoli numeri, quei concerti che accolgono fino a sei mila persone, ma che in un anno superano di gran lunga le cifre da stadio».

E sull’aspetto umano del mestiere precisa: «Instaurare un rapporto con l’artista da portare sul palco non fa di questo lavoro un’attività umana. Ciò che conta è avere un atteggiamento di umanità nella costruzione del proprio business per non concentrarsi esclusivamente sul fatturato. La musica dal vivo è un’esperienza complessiva. Per comunicare quest’idea è anche necessario ristabilire il valore formativo della musica, informando le nuove generazioni e creando un’attenzione etica».

Una filosofia, quest’ultima, che viene confermata dall’idea che sta dietro all’attività quarantennale di Barley Arts. «Ricordo ancora l’emozione del primo live, quello della Basement Big Band organizzato per Canale 96 – conclude il manager – . Un’esperienza meravigliosa e un’emozione che continuo a porre al centro del mio lavoro. Il live è condivisione e interazione e la musica stessa è fatta di emozioni che cambiano. Quando mi chiedono quale sia la mia canzone preferita rispondo che è impossibile trovarne una. Ogni momento della nostra vita è caratterizzato da sensazioni che portano con sé ricordi differenti e così le canzoni a essi collegate».

Un mantra, questo, che ha fatto di Barley Arts il manifesto della propria attività, fatta di umanità, la stessa che per Saturnino è protagonista di vita, e indipendenza, come quella del rock che per Stefano Senardi sta riemergendo. Una musica che, nonostante i profondi cambiamenti, ritorna anche a distanza di quaranta e vent’anni con emozione, importanza del live e condivisione immutate.