Era il quattro agosto 1977. Quel giorno, dopo quasi un secolo di leggi e pratiche inefficaci per l’istruzione delle persone affette da disabilità, venivano finalmente abolite le classi differenziali. Un risultato raggiunto a seguito di una forte sensibilizzazione sul tema, del miglioramento delle tecniche pedagogiche e culminato con l’introduzione della figura dell’insegnante di sostegno. Da allora il dibattito sulle classi differenziali è sempre rimasto aperto e le recenti dichiarazioni del generale Roberto Vannacci non hanno fatto altro che puntarci nuovamente il riflettore. «Credo che delle classi con “caratteristiche separate” aiuterebbero i ragazzi con grandi potenzialità a esprimersi al massimo, e anche quelli con più difficoltà verrebbero aiutati in modo peculiare – ha detto Vannacci –. Un disabile, però, non lo metterei di certo a correre con uno che fa il record dei cento metri. Gli puoi far fare una lezione insieme, per spirito di appartenenza, ma poi ha bisogno di un aiuto specifico. La stessa cosa vale per la scuola: chi ha un grave ritardo di apprendimento si sente più o meno discriminato in una classe dove tutti capiscono al volo? Non sono un esperto di disabilità, ma sono convinto che la scuola debba essere dura e selettiva, perché così sarà poi la vita».
Tra chi ha sostenuto le sue affermazioni e chi le ha aspramente criticate, ancora una volta è emerso un quadro con due fazioni contrapposte: coloro che vedono l’inclusione di persone affette da disabilità (ma anche con differenze linguistiche, bisogni educativi speciali o disturbi dell’apprendimento) come un arricchimento per le classi, e i cosiddetti “inclusoscettici”. «Questa categoria di persone vede l’inclusione come un valore civile e politico ideale, ma non praticabile nella realtà – spiega Dario Ianes, professore di Pedagogia dell’inclusione alla Libera Università di Bolzano -. È una tendenza presente non solo in Italia ma anche a livello europeo. È interessante andare ad analizzare le ragioni degli inclusoscettici: secondo loro un ragazzino con una grave disabilità disturba troppo gli altri compagni, impedendo di apprendere nel migliore dei modi; l’inclusione causerebbe un danno anche al ragazzo stesso perché costretto a tenere il passo e a rincorrere un livello di competenza lontano dal proprio che non può comprendere; infine, questo tipo di inclusione forzata porterebbe, in alcuni casi, a episodi di segregazione, bullismo e sofferenza».
Su quale sia la miglior metodologia da adottare, però, Ianes non ha dubbi: «Studi ed evidenze scientifiche hanno messo ampiamente in luce i benefici dell’inclusione. Questo è vero non solo per gli alunni con disabilità, ma anche per i compagni normodotati che, dal contatto con la diversità, sviluppano tutta una serie di soft skills e un approccio mentale molto più libero e aperto. Da un punto di vista meta cognitivo, inoltre, sembra sia anche un vantaggio imparare a collaborare con una persona che ha una mente diversa dalla propria. Ciò comporta lo studio dell’altro, bisogna imparare a comunicare e risolvere le difficoltà, di conseguenza gli alunni ne escono maggiormente formati».
Se quindi l’inclusione sembra essere la forma migliore per permettere agli studenti di apprendere in serenità, rimangono però delle difficoltà concrete da affrontare tra cui la mancanza di personale specializzato che possa prendersi cura degli alunni. Gli ultimi dati ISTAT hanno tracciato un quadro che, se non drammatico, appare quanto meno preoccupante: il 32% degli insegnanti di sostegno (più di 70mila) non hanno una formazione specifica ma vengono impiegati per far fronte alla carenza di figure specializzate. Il fenomeno è largamente diffuso nelle regioni del Nord, dove la quota di insegnanti curriculari che svolgono attività di sostegno è del 42%, mentre è più basso nel mezzogiorno, che si attesta sul 19%. Oltre a ciò, sempre secondo il report ISTAT, spesso alla mancanza di formazione specifica si affianca un ritardo nell’assegnazione del ruolo.
«Questa è la grave criticità del nostro sistema – continua Ianes –. Quando sono state chiuse le classi differenziali, l’idea del legislatore era quella di costituire due grandi strumenti: da una parte gli insegnanti specializzati (non di sostegno) e un’equipe psicopedagogica a supporto della scuola. Questa seconda misura non è mai stata applicata e la prima si è trasformata, da insegnante specializzato con delle competenze in più, a insegnante di sostegno. Per risolvere il problema, a mio parere, bisogna seguire due linee: normalizzare il sostegno, che dai docenti curriculari è spesso visto come un lavoro di
serie B, e poi approfondirlo sempre di più».
Una ricerca effettuata proprio da Ianes e da altri ricercatori ha infatti evidenziato un altro dato preoccupante: tra gli stessi insegnanti sottoposti a un questionario anonimo, è emerso che il 17% preferirebbe avere classi differenziali a causa delle troppe difficoltà nel seguire studenti con disabilità. «E al sondaggio hanno partecipato persone che, anche se in anonimo, erano disposte a dire la propria opinione. Questo 17% è perciò una sottostima del totale reale: probabilmente gli inclusoscettici tra i maestri si attestano tra il 20 e il 25%».
Non se la passano meglio gli educatori. Categoria, questa, molto specializzata nell’aiuto alla disabilità, ma che subisce una forte discriminazione all’interno del sistema scolastico e condizioni di vita al limite. «Sono laureata in scienze dell’educazione con curriculum in prima infanzia, ovvero la fascia da zero a sei anni. La nostra è una professione esterna alla scuola, io per esempio lavoro per una cooperativa – racconta Beatrice, educatrice –. Ad ognuno di noi vengono affidati casi di bambini con disabilità, che sia cognitiva-comportamentale o fisica, e seguiamo i piccoli sia a scuola che a casa. La differenza
tra gli insegnanti di sostegno e noi è più burocratica che pratica: gli insegnanti di sostegno sono statali e hanno la responsabilità di tutta la classe, noi invece siamo esterni e seguiamo solo i nostri bambini, anche se stando in classe diventiamo una figura di riferimento per tutti. Il problema più grande per noi sta nelle condizioni di lavoro: è difficile riuscire a fare 40 ore, solitamente ogni bambino ha più di un educatore o più insegnanti di sostegno e non ci permettono di fare abbastanza ore. Il che si ripercuote sugli stipendi. C’è difficoltà a trovare educatori perché veniamo pagati pochissimo, ciò scoraggia la maggior parte delle persone anche se si tratta della propria passione. Lo stipendio medio si aggira attorno ai 900/1000 euro al mese, una cifra ormai neanche lontanamente accettabile per costruirsi un futuro. Siamo, inoltre, vincolati a una serie di clausole che abbassano ulteriormente questo valore: per esempio i
ponti e le vacanze scolastiche non ci vengono retribuite. Per il periodo della pausa natalizia, in cui i bambini restano a casa più o meno due settimane e, di conseguenza, noi non possiamo lavorare, percepiamo la retribuzione solo per il 25, il 26 dicembre e il primo dell’anno. Ancora, se il bambino che seguiamo si ammala e non possiamo raggiungerlo, sono altre ore che non ci vengono pagate. Oltre a ciò, a scuola viviamo a contatto con gli insegnanti curriculari che, spesso, ci considerano di serie B, non abbiamo la stessa considerazione di un insegnante di ruolo. È frustrante, molti di noi sono più preparati dei curriculari, tanto per dire io ho studiato e dovuto prendere una laurea mentre molte maestre no».
A complicare le cose c’è la possibilità per gli educatori di diventare insegnanti di ruolo per l’asilo nido e sfuggire, così, alla bassa retribuzione. Sono in molti a percorrere questo cammino, creando però un buco nell’offerta e nel sostegno agli studenti disabili.
Le scuole sono quindi costrette ad assumere persone non competenti e, piuttosto che rimanere a corto di personale, «per disperazione assumono chiunque», in un circolo vizioso che si autoalimenta. «Anche il modo in cui la nostra professione viene percepita è importante – continua Beatrice –. Non ci vengono riconosciute le competenze e l’esperienza maturata, e questa discriminazione l’ho vissuta sulla mia pelle. Tempo fa feci domanda per gestire un mini Cre, ma quando videro che avevo il titolo e che ero laureata mi dissero che non avevano bisogno di nessuno. Solo in seguito venni a sapere che, al mio posto, avevano preferito dei ragazzi che dovevano svolgere dei lavoretti estivi, senza titolo, e che potevano quindi essere pagati di meno. Come a dire che dei ragazzi senza esperienza né studi sarebbero equivalenti a noi educatori formati e preparati, come se fossimo degli animatori e non personale specializzato. È questa la considerazione che si ha del nostro lavoro».
Nonostante tutto, Beatrice e’ innamorata del suo mestiere e ogni giorno si batte per quei valori di inclusione in cui crede fermamente. Riguardo la possibilità di un ritorno alle classi differenzialo non ne vuole sapere: «Sono assolutamente contraria, è importante che i bambini imparino che la diversità esiste e che va rispettata e compresa. Una decisione simile porterebbe un forte impatto emotivo nei bambini proprio nella concezione di sé. Se fino ad oggi si sentivano accolti in un contesto normale che portava anche loro a non considerarsi diversi, adesso si sentirebbero emarginati e confinati. Il problema è che di persone contrarie all’inclusione ce ne sono ancora parecchie, soprattutto dentro la scuola. Anche quella dove lavoro io, che si professa inclusiva, in realtà non lo è affatto. Mi è capitato più volte di dover combattere, insieme alle insegnanti di sostegno, per far rispettare i diritti dei nostri bambini perché le maestre curriculari volevano allontanarli a seguito di alcune crisi. Sono alunni difficili, ma dalla comprensione e dal rispetto ne traggono tutti beneficio. E questo deve capirlo soprattutto la scuola».
“L’uomo è un animale sociale”, scriveva Aristotele. La pratica delle classi differenziate risale agli anni Settanta e siamo nel 2024. Tutti questi anni sono stati caratterizzati dalle lotte per l’inclusione, la normalizzazione e le conquiste dei diritti, ma in qualche modo sembra esserci una volontà di tornare indietro. La causa forse è la tendenza a ricercare nel passato la soluzione più adeguata a risolvere i problemi del presente. Qui sono in gioco persone, capitale sociale, ciò che porta la gente a scambiarsi gratuitamente idee, a condividere esperienze e soprattutto a relazionarsi l’uno con l’altro. La società si sta muovendo sempre di più verso una realtà innovativa, che sia il più possibile all’avanguardia. L’inclusione sociale è uno dei dibattiti ch però deve
restare al centro. Le persone sono per natura portate a cercare altri simili, ma come si può fare se si separano,
come in questo caso, proponendo delle classi divise? Il rischio è quello di allontanarsi sempre di più dal concetto di “inclusività” e di tendere, al contrario verso l’accentuazione della “diversità”, rimarcando ciò che ci divide, invece che evidenziare ciò che ci potrebbe unire.