Il sociologo Giovanni Semi, docente al Dipartimento di Culture, politica e società dell’Università di Torino, è considerato il massimo esperto in Italia della gentrification. Il suo ultimo libro è Gentrification. Tutte le città come Disneyland? (Il Mulino, 2015).

Cos’è la gentrification, oggi, in Italia?

«In questo momento storico la gentrification ha a che fare con una riconfigurazione della città, grazie al ritorno dell’interesse da parte dei pubblici o privati, nell’investimento della rigenerazione e riqualificazione della città stessa. Questa riconfigurazione non deve portare con sé l’arcaica distinzione geografica di centro e periferia, perché i capitali investiti toccano indistintamente e con una relazione logica, entrambi i contesti. Tradizionalmente la letteratura sulla gentrification, pur riconoscendo questi fenomeni di miglioramento della città, non può avere il rovescio della medaglia: solitamente c’è un aumento dei valori immobiliari (prezzi al metro-quadro e affitti) ma anche in maniera più sottile, ad un aumento del costo della vita. L’effetto è molto semplice: costa tutto di più, costa abitare, costano i servizi, costa muoversi, costa mangiare. In questo senso, chi riesce a catturare questo aumento dei valori ne approfitta (vendendo la propria casa a prezzi maggiorati oppure apprezzando le nuove potenzialità della zona). Sono però presenti diverse parti della società che non rientrano in questa cerchia: prima di tutto perché vedono aumentare i loro canoni (affitti o utenze molto spesso per gli immigrati, i più deboli sotto tutti i punti di vista) ma anche proprietari, figure cittadine diverse dal nuovo ceto sociale, che non si ritrovano più nel loro quartiere. L’esempio classico è quello del proprietario anziano, spaesato dal nuovo panorama commerciale fatto di sushi, birrerie artigianali, vinerie bio, negozi vintage. Anziani, immigrati o famiglie tradizionali dai ritmi di vita e di lavoro diversi, solitamente, non approfittano di questi cambiamenti e tendenzialmente li subiscono».

La gentrification è un bene o un male per la città e la sua popolazione?

«In generale questo atteggiamento si vede in qualsiasi fenomeno sociale. In più, non è il compito dei sociologi andare a definire i fenomeni in “conseguenze positive / negative” o stabilire delle frontiere morali. Si può dire in generale che quando si osservano delle forme di mutamento sociale, c’è sempre qualcuno che muove le fila, ingabbiando il cambiamento e traendone poi un vantaggio. È ovvio che se prendiamo solo il cambiamento architettonico, meramente estetico, non si può non affermare un miglioramento dell’insieme, avvertendolo come positivo; il problema è che se noi limitiamo il nostro focus dell’attenzione solo su questo aspetto, si rischia di mettere in ombra tutto quello che sta dietro alla semplice riqualifica della zona. L’errore che fanno in molti è di osservare la gentrification solamente nel quartiere che ne beneficia;  non bisogna separare analiticamente quelle che noi in maniera molto grezza intendiamo come periferie o centro: uno è il contraltare dell’altro e sono sempre in relazione».Non bisogna separare le periferie dal centro: uno è il contraltare dell’altro e sono sempre in relazione».

Qual è la differenza tra gentrification italiana e gentrification americana?

«Siamo di fronte allo stesso fenomeno che però si sviluppa con una forza e un profondità di attuazione differente. La velocità nel cambiamento è il primo aspetto da prendere in considerazione: in America bastano pochi mesi per avere una metamorfosi radicale (intendo una trasformazione di un intero quartiere) mentre in Italia devono passare anni. Tutto questo perché i picchi di miglioramento e degrado creano maggiori conseguenze in America che in Italia. Un esempio può essere il mercato immobiliare: la bolla del 2008 ha quasi azzerato il valore della case in America mentre in Italia ha avuto un deprezzamento solo di un massimo del 30%. Le città italiane negli anni ’70, ’80 e ’90 hanno subìto un forte degrado, ma la situazione italiana non sarà mai al livello di quella  toccata in America in quegli anni: la criminalità, l’intensità abitativa della popolazione nelle periferie ma anche il fenomeno della ghettizzazione che è presente tutt’ora in America, ha avuto un peso specifico non equiparabile. La magnitudo del fenomeno è difficilmente comparabile».

Nel percorso della metamorfosi della città e del suo tessuto sociale, oltre alla gentrification, è frequente lo “svuotamento della piazza principale” del centro come luogo di ritrovo della movida dei ragazzi. Secondo lei perché la piazza principale (piazza Duomo, piazza Maggiore, piazza Castello, piazza del Plebiscito) non è più il luogo di ritrovo delle giovani generazioni?

«In realtà non c’è mai stato uno svuotamento della piazza perché non è mai esistito un “riempimento”; non c’è mai stata un’epoca d’oro in cui la movida dei giovani si ritrovava nella piazza principale. Piazza Maggiore a Bologna ha sempre mantenuto negli anni una sua precisa connotazione, “incapsulando” gli studenti davanti alla fontana del Nettuno o Sala Borsa ma mai al centro della piazza o sui gradoni della Basilica di San Petronio. Piazza Duomo a Milano ha una connotazione più ambigua perché negli anni Ottanta l’area politica giovanile non era nel centro della piazza ma era in corso Vittorio Emanuele o piazza San Babila. Piazza Castello ma anche piazza San Carlo a Torino sono state letteralmente commesse da parcheggi per automobili fino agli Ottanta. Noi abbiamo un’idea abbastanza romantica della piazza principale delle città italiane, rifacendoci ad un passato che forse non è mai esistito.Invito a una certa cautela quando si parla di “svuotamento della piazza principale” dato che la piazza non è mai stata riconosciuta come punto di ritrovo dai giovani, già nel passato quanto adesso».

Lo “svuotamento della piazza principale” è un discorso da affrontare con molta cautela perché secondo lei, in effetti, non c’è mai stato un vero “riempimento”; ma allora quali sono i motivi dietro la scelta dei giovani di optare per altri luoghi, invece di ritrovarsi nella piazza principale? È stato un fenomeno sociale avvenuto senza forzature? Oppure c’è stata una volontà dietro?

«Noi sociologici non crediamo o comunque non adottiamo spesso come metro di giudizio il semplice fenomeno naturale, sappiamo invece che esistono fenomeni di mercato che non solo naturali, ma dettati dalle scelte di attori specifici. È un fatto assodato che le amministrazioni pubbliche abbiano spinto attori privati e abbiano concesso deroghe e licenze per l’apertura di locali, in determinate zone, per attivare lo sviluppo commerciale. Le politiche amministrative, ragionando sulla possibilità di riattivare una determinata zona della città, non possono più puntare sul tessuto produttivo che è ormai all’esterno della città (fabbriche e studi professionali) ma compensano con il terziario (ristornati, locali notturni e bar)».

Nel suo libro Gentrification. Tutte le città come Disneyland? lei ha parlato della cosiddetta studentification indicandola come la base della futura gentrification. Ha anche affermato che gli studenti avranno un doppio effetto: fonte di squilibrio sulle condizioni sociali, economiche, culturali e fisiche delle città, ma anche replicanti dei valori del ceto medio urbano.

«Bisogna innanzitutto riconoscere che questi fenomeni di trasformazione individuano tantissimi attori: che siano politici, sociali ed economici, essi possono avere interessi comuni o affrontarsi in un’ipotetica scacchiera come avversari. La partita degli studenti è interessante perché entra in causa uno degli interpreti più forti, ovvero l’università. L’università non deve essere intesa come un mero dispensatore di certificati o voti, in realtà le accademie sono attori immobiliari dal momento che muovono dipartimenti o campus e soprattutto le strutture abitative per studenti o professori. In certi casi possono incontrare i favori delle amministrazioni pubbliche quando, ad esempio, questo gioco favorisce l’attrazione di un polo di studenti, pensanti e acculturati, che un giorno magari rinvestiranno il loro sapere in attività dentro Bologna. Sono le famose politiche di attrazione di qualche anno fa dei “creativi”. Le amministrazioni pubbliche hanno molte leve per rendere attrattivi determinati poli, richiamando i giovani; uno di questi è fornire le cosiddette “amenity” cioè servizi e confort (bar, caffè, locali) specificamente pensate per un target di persone giovani. Il problema è che molto spesso, tutto questo va in contrasto con il volere dei residenti che si trovano di fronte al costante abbassamento del valore degli immobili (emblematico è l’esempio di piazza Verdi a Bologna o di San Salvario a Torino). In realtà la movida, fenomeno legato a politiche di rigenerazione urbana ed di attrazione di studenti, può giocare da contraltare alla gentrification come l’abbiamo intesa finora. La studentification si mostra come base futura per una nuova e diversa gentrification».