La globalizzazione annienta l’abilità degli Stati di proteggersi. Se la comunità internazionale volesse fermare i paradisi fiscali, potrebbe farlo domani stesso. “I paradisi fiscali esistono perché la politica globale permette la loro esistenza”. Questa è la visione di John Christensen, fondatore e direttore esecutivo del Tax justice network, organizzazione, nata nel 2003 a Londra, che lotta per un cambiamento del sistema finanziario internazionale in grado di abolire quelle ingiustizie che ogni giorno, silenziosamente, sottraggono ricchezza all’intero pianeta: i paradisi fiscali e l’evasione fiscale internazionale.

Diverse organizzazioni internazionali, fra cui l’Unione Europea, pubblicano periodicamente delle Black list dei Paesi considerati paradisi fiscali, ma queste liste sono spesso incomplete e discordanti fra loro. John Christensen è nato e cresciuto sull’isola di Jersey, ha lavorato come consigliere economico per il governo di questo Paese, considerato un paradiso fiscale a cavallo della Manica. Lo abbiamo raggiunto via Skype da Londra.

Qual è il vostro metodo di ricerca?
La ricerca per noi è importante solo quando è utile a sensibilizzare l’opinione pubblica. La nostra ricerca ha un obiettivo chiaro: quando selezioniamo i dati, non lo facciamo solo per priorità o interesse per il tema ma cerchiamo argomenti che siano in grado di supportare la nostra missione: sensibilizzare l’opinione pubblica e raggiungere dei cambiamenti a livello politico. Il nostro principale esercizio di ricerca, per molti anni, è stato il Financial secrecy index (Fsi), un indice che si occupa di studiare le legislazioni di vari Paesi del mondo per valutarne il grado di segretezza concesso e capire dove possono essere custoditi i segreti finanziari. L’obiettivo di questo indice è quello di far capire al pubblico la corruzione, gli intrighi finanziari internazionali e il modo in cui le banche cooperano tra loro.

Come raccogliete le informazioni sui paradisi fiscali?
Abbiamo un team di ricercatori esperti di diritto. Tre di loro sono avvocati e si occupano di raccogliere dati da diverse fonti: dalle Ong impegnate in questo settore, dal Fondo monetario internazionale, fino ai siti web dei governi dei singoli Paesi. Abbiamo inoltre contatti con i servizi segreti dei vari Paesi presenti nel Fsi.

Come organizzate l’analisi dei dati economici?
Viviamo in un mondo inondato da un’enorme mole di dati. Per questo motivo, abbiamo bisogno di avere accesso non solo alle risorse “libere”, ma anche a dei programmi in grado di maneggiare questi enormi flussi di dati. Lavoriamo con esperti di open-data in grado di estrarre informazioni utili da ingenti quantità di dati. Questo è ciò che è successo con i giornalisti del caso Panama papers: li abbiamo aiutati a capire come i dati possono essere raccolti e usati per estrarne delle storie.

Qual è il miglior risultato ottenuto dal Tax justice network?
L’obiettivo era informare le persone per renderle capaci di parlare dell’argomento tasse, che spesso è reso molto tecnico apposta per escludere il pubblico. L’obiettivo originale del nostro Network era quello di aprire un dibattito globale sulla tassazione, sui paradisi fiscali e sulla concorrenza fiscale. Guardando indietro agli ultimi 15 anni, da quando il Tjn è stato fondato, siamo riusciti ad aprire il dibattito. La discussione avviene oggi a diversi livelli: con la politica, con la società civile, con i giornalisti e con il popolo libero. L’obiettivo era informare le persone per renderle capaci di parlare dell’argomento tasse, che spesso è reso molto tecnico apposta per escludere il pubblico. Penso che ciò che abbiamo fatto è stato ampliare le possibilità di dibattito pubblico sul sistema di tassazione nelle moderne democrazie. A livello politico il miglior risultato è stato quello di spingere il G20 ad accettare nuovi standard globali per lo scambio di informazioni e dare vita ad una serie di report, Paese per Paese, sui conti pubblici e sulle multinazionali. Eravamo l’unica Ong a spingere per queste nuove regole e siamo stati noi a scrivere quegli standard.

Quali sono le principali fonti di finanziamento del Tax justice network?

I principali finanziamenti del Tjn provengono dal governo finlandese, in particolare dalla sua agenzia per lo sviluppo Norad. La Financial Trasparency Coalition (Coalizione per la trasparenza finanziaria) è un’alleanza di Ong che contribuisce in maniera significativa al nostro bilancio. Inoltre, l’associazione Joffe Charitable Trust, in nome di Joel Joffe ex-membro della Camera dei lord inglese, finanzia da diversi anni il nostro progetto insieme ad altre Ong come Oxfam e Novib. Negli ultimi anni il nostro corso per giornalisti, Finance uncovered, ha supportato le nostre finanze, insieme alle sottoscrizioni pubbliche di persone che donano ogni giorno tramite il nostro sito web.

Generare un cambiamento sistematico tramite l’informazione: è possibile?

Penso che la Grande recessione abbia dimostrato al pubblico l’importanza di un cambiamento nel sistema.Si ovviamente è possibile cambiare il sistema. Penso che la Grande recessione abbia dimostrato al pubblico l’importanza di un cambiamento nel sistema. Il mio lavoro si è concentrato sulla costruzione di alleanze con organizzazioni della società civile nel mondo, non solo Ong ma anche coalizioni di Ong e sindacati delle diverse fazioni politiche. Allo stesso tempo è di fondamentale importanza collaborare con i giornalisti e aiutarli a comunicare informazioni molto sofisticate sui paradisi fiscali e sulla concorrenza fiscale. Loro giocano un ruolo fondamentale. Sono i giornalisti che comunicano messaggi al pubblico tramite giornali, radio, televisione e social media. Tramite il nostro programma Finance uncovered abbiamo formato più di 250 giornalisti, sparsi in più di 80 paesi nel mondo, su come analizzare i dati e capire i tecnicismi delle politiche economiche, in particolare relativi alla tassazione. Il successo di questo programma può essere ritrovato nel recente caso dei Panama papers in cui otto giornalisti chiave dell’inchiesta erano stati formati dal nostro programma.

Perché e come è possibile che nascano e si sviluppino i paradisi fiscali?

I paradisi fiscali esistono perché la politica globale permette la loro esistenza. I politici italiani, francesi, tedeschi, inglesi, americani li lasciano operare in questo modo. La globalizzazione annienta l’abilità degli Stati di proteggersi. Se la comunità internazionale volesse fermare i paradisi fiscali, potrebbe farlo domani stesso. Potrebbero chiedere trasparenza rispetto a strutture offshore, imprese offshore e fondi offshore. Potrebbero bloccare la capacità delle compagnie offshore di esportare il denaro da un Paese senza pagare le tasse, potrebbero chiedere alle compagnie multinazionali la totale trasparenza. Il problema vero è che quando qualcuno propone questi argomenti sui paradisi fiscali, viene immediatamente fermato. Il problema è il potere, di Paesi come il Regno Unito, gli Stati Uniti d’America e altri stati chiave per i paradisi fiscali, di bloccare i progressi a livello globale. Per questo motivo, secondo me, è molto importante sensibilizzare l’opinione pubblica su chi sono i reali colpevoli. È sbagliato pensare che i colpevoli siano da cercare in qualche isola caraibica o nelle giurisdizioni di Paesi come il Liechtenstein o la Svizzera. I veri colpevoli sono i personaggi chiave delle grandi organizzazioni internazionali quali l’Unione Europea e le Nazioni Unite che bloccano i tentativi dei paesi “non paradisi fiscali” di creare un mondo dove queste ingiustizie non possano esistere.