Ricordare. L’obiettivo di una giornata commemorativa è esattamente questo. Ricordare per alimentare la coscienza di ciò che è accaduto ed evitare che si ripeta ancora. Il 27 gennaio, Giorno della Memoria, nasce con questo fine. In un mondo però estremamente presente e vivo in cui l’antisemitismo continua ad essere compagno di governi e alimento di intolleranza forse il ricordo non basta. Forse a questa dimensione della memoria che invita ad uno sguardo volto al passato, è necessario accostarne un’altra, quella della conoscenza. Myriam Camerini, studiosa della cultura yiddish e futura prima rabbina ortodossa in Italia incarna questo ponte che, tra culture, religioni e generazioni, «cerca di favorire la conoscenza vera tra le persone», per andare oltre il ricordo.

Come si può raccontare la cultura ebraica oltre la Shoa?

Credo intanto che sia molto importante farlo. Ciò che le persone in Italia oggi conoscono del mondo ebraico deriva dalle esperienze di Moni Ovadia e dai primi esperimenti teatrali di fine anni ’80-primi anni ’90. Penso che come terza generazione della Shoa, nata molto tempo dopo, sia nostro compito fondamentale raccontare l’ebraismo di oggi, quello che c’è, quello che è vivo. E poi andare a vedere anche quello che c’era prima: molta parte del mio lavoro teatrale e musicale si concentra su questo, inscenando testi yiddish addirittura del XVI secolo, per mostrare quanto questa storia sia ricca di radici in Europa.

In cosa consistono i tuoi studi per diventare rabbina e che tipo di conquista rappresenterà questo ruolo per l’ebraismo?

Al momento sono l’unica che in Italia sta studiando in una scuola rabbinica aperta anche alle donne nel ramo ortodosso. Il mondo ebraico, così come quello cristiano, è diviso in varie correnti: un po’ come nel cristianesimo riformato e protestante anche in questo tipo di ebraismo esistono, dai primi anni ’70, le donne rabbino. Poi, una quindicina di anni fa hanno iniziato ad aprire anche scuole ortodosse femminili – a quella di New York, inaugurata nel 2009, sono seguite altre soprattutto in Israele e a Gerusalemme. «L’antisemitismo è cosa vecchia quanto l’ebraismo. Per questo è importante raccontare la cultura ebraica di oggi, quello che c’è, quello che è vivo. Perché più c’è conoscenza reciproca e più si può sperare di affrontare qualcosa» – Myriam Camerini.

Per come immagino la mia vita futura adesso, diventare rabbino non significa per me ricoprire questo ruolo all’interno di una comunità, e in ogni caso sicuramente non in Italia. L’ebraismo italiano, per come è fatto oggi, non è infatti ancora assolutamente interessato, nelle sue frange ortodosse, ad avere donne nel rabbinato: è un tema controverso e per nulla accettato, anche perché non ne esistono ancora. Quello che mi interessa però è il passo politico di questo percorso di studi, oltre all’aspetto culturale e di istruzione.

Myriam Camerini, studiosa di cultura yiddish e futura prima rabbina ortodossa in Italia.

Myriam Camerini, studiosa di cultura yiddish e futura prima rabbina ortodossa in Italia.

Che tipo di guida spirituale può rappresentare oggi per la comunità una rabbina donna?

Tradizionalmente, il ruolo di un rabbino nelle comunità ebraiche è quello di un maestro, di un insegnante e di una persona che può dare risposte di argomento normativo. Tutto quello che studiamo, per il 90%, riguarda quello che in ebraico si chiama “Allah”, cioè l’aspetto delle regole: l’ebraismo ha 613 precetti e tutto ruota attorno all’osservanza del sabato, che è lo “Shabbat”, il giorno di sosta. Uno dei miei progetti è proprio dedicato a questo: lo “Shabbat di tutti”, una cena del sabato ebraico condivisa con chiunque sia curioso di sapere di cosa si tratta, cosa si mangia, cosa si legge. Per esempio, uno dei testi letti in questa occasione è un brano di Erri De Luca, tratto da E disse del 2011, che rappresenta lo Shabbat anche come la prima notte d’amore tra Adamo ed Eva. È proprio questo forte legame con i precetti che sostanzia la figura del rabbino come colui che risponde a livello normativo, che insegna e guida. Non riveste invece una funzione liturgica e sacerdotale: tutto l’aspetto del rito spetta alla comunità e non a una figura singola. «Per l’ebraismo riformato, più aperto a quanto accade fuori e quindi anche all’evoluzione sociale della donna, è stato più facile accettare il rabbinato femminile. Per quello ortodosso servono invece delle forzature normative perché questo possa succedere: per questo, ciò che più mi interessa dei miei studi, è proprio il passo politico».

Cosa distingue ebraismo ortodosso e riformato?

La differenza principale è racchiusa proprio nell’aspetto della centralità dei precetti e nel sistema giuridico dell’Allah, per cui si ritiene possibile e anzi necessario e costante il rinnovamento. A dirlo è la sua stessa radice, “allahr”, che racchiude il significato del movimento e del percorso: esiste proprio un’idea di qualcosa che deve camminare con l’umanità e che evolve. Questo deve avvenire nel rispetto di alcuni criteri che regolano che cosa e come possa cambiare. Finché si rimane dentro questa cornice si parla di ebraismo ortodosso, a sua volta frammentato in diverse frange interne. Quello che faccio io, per esempio, si inscrive nel mondo dell’ortodossia moderna, distinta invece da quelli che convenzionalmente identifichiamo come ultra-ortodossi, molto più tradizionali. Per la riforma è facile adattarsi a quello che accade fuori e quindi anche accettare che l’ebraismo non possa restare indifferente e statico di fronte all’evoluzione della posizione femminile avvenuta nella società negli ultimi 150 anni. Per quello ortodosso servono delle forzature proprio normative perché questo possa succedere.