Scuola Diaz, caserma di Bolzaneto, piazza Alimonda. Dalle giornate del G8 2001 quei luoghi di Genova sono diventati il perno di un flusso costante di informazione e controinformazione, la nuova trincea, scavata fra le pagine di internet, che ha cercato di ricostruire gli scontri fra manifestanti e forze dell’ordine. Franti, robusto e adulto a sufficienza per aver vissuto in strada la militanza dagli anni ’70 fino ad oggi, non intende rivelare il suo vero nome per opportunità e sicurezza. Lui più di altri ha lavorato per quattro anni, fino al 2005, alle inchieste giornalistiche online che provano a restituire chiarezza agli episodi del G8. Fino al colpo di pistola che uccise Carlo Giuliani, documentato attraverso i testi e le immagini del sito Pillolarossa. Dalla tempesta di articoli apparsi soprattutto su Indymedia, Franti e la “crew” di Pillolarossa hanno separato il grano dal loglio, raccontando e mostrando con precisi fotogrammi i minuti convulsi del 20 luglio 2001, in piazza Alimonda.

Quale idea originaria ti ha portato ad analizzare, così in profondità, le giornate del G8 di Genova?

Ho partecipato in prima persona al G8, da manifestante, ed è stata un’esperienza sconvolgente, che mi ha segnato. Dopo le giornate di luglio ho impiegato molto tempo a realizzare cosa fosse successo, a dirimere la confusione. Ritornato a Genova dopo sei mesi faticavo a riconoscere le strade, era come se i muri odorassero ancora di lacrimogeni. Non riuscendo a dare una spiegazione logica a tutta quella violenza ho sentito la necessità di comprendere fino in fondo gli eventi. Durante i cortei di protesta si aveva la percezione del rastrellamento, le forze dell’ordine sembravano impazzite, come se cercassero una resa dei conti definitiva con il movimento. Probabilmente, dopo la vittoria della destra alle elezioni politiche, i carabinieri respiravano un’aria diversa, di piena legittimazione. Un atteggiamento che, in anni di militanza e inchieste su episodi simili, non mi era mai capitato di riscontrare, neppure negli anni ’70.

Come hai sviluppato, concretamente, l’inchiesta?

Complessivamente ho indagato dal 2001 al 2005, pubblicando numerosi articoli apparsi su Indymedia e poi ordinati su Pillolarossa, dove si parla nello specifico della morte di Carlo Giuliani. In seguito, anche in virtù delle informazioni raccolte, sono diventato consulente del processo che riguarda i fatti di strada. A quel punto ho smesso di scrivere per evitare ogni possibile conflitto di interesse. Vivo in Veneto e all’epoca del G8 avevo un lavoro nel pubblico impiego. Mi sono licenziato, e con la liquidazione ho finanziato l’inchiesta, senza nessuna testata, neppure indipendente, alle spalle.

Inizialmente lavoravo su un’ipotesi, che ancora molti coltivano, ma che io dismetto in quanto priva di indizi, e cioè che a sparare non fosse stato Placanica, ma un carabiniere intoccabile che si voleva proteggere. Questa mi sembra una tesi fuorviante, anche perché la gravità del caso Giuliani risiede soprattutto nella violazione del corpo commessa dai carabinieri, quando il giovane, agonizzante, viene finito a colpi di pietra. Per un periodo, dunque, ho fatto avanti e indietro dal Veneto a Genova, raccogliendo nomi, circostanze, fatti, e cercando di verificare ogni episodio. Frequentavo spesso la segreteria legale del Genoa Social Forum, avendo accesso a diversi atti processuali – comunicazioni audio della polizia, informative ufficiali degli scontri – che incrocio e confronto.

Ho navigato tantissimo su internet, spulciando vari forum e tessendo contatti online, con giornalisti e fonti provenienti dagli stessi ambienti delle forze dell’ordine. In questi casi è necessario lavorare molto con gli archivi. Il pezzo sui periti del processo, i cui riscontri hanno determinato il “non luogo a procedere” per Placanica, ha comportato grande impegno e alla fine l’inchiesta mette in dubbio la credibilità professionale dei funzionari nominati dalla magistratura. Inoltre ho usato, grazie all’aiuto di un amico giornalista, l’archivio Ansa, ricostruendo la carriera degli ufficiali dei carabinieri protagonisti negli scontri. In questo modo ho scoperto un inquietante filo rosso che dalla Somalia – dagli atti di violenza perpetrati dalle truppe italiane nel ’93 e sui quali ha indagato la giornalista Ilaria Alpi – porta fino a Genova. Molti nomi di militari sono sovrapponibili. Lavorare per tutto questo tempo è stato faticoso, anche finanziariamente. Ma ne è valsa la pena, posto che tutto è iniziato da una profonda necessità personale di chiarezza.

Oltre a te, chi ha curato le indagini scrivendo e raccogliendo informazioni?

Diverse persone. Parto e finisco l’inchiesta da solo, ma nel cuore delle indagini il gruppo arriva a contare 10 volontari al lavoro. Si tratta di alcuni militanti del social forum, collaboratori di Indymedia, giornalisti tradizionali. Abbiamo cercato di illuminare ogni segmento di quei giorni, dalla scuola Diaz alla caserma di Bolzaneto, dalla morte di Carlo alle violenze in strada. Anche la rete ha fatto in modo che l’inchiesta diventasse collettiva: il forum di Indymedia ha ospitato le testimonianze di persone di tutti i tipi, compresi ex ufficiali dei carabinieri.

Hai attraversato almeno due stagioni di controinformazione. I nuovi strumenti a disposizione come hanno cambiato il metodo di lavoro?

Negli anni ‘70 condurre da soli, o parzialmente in autonomia, un’indagine simile non avrebbe avuto alcuna possibilità di successo. Con la quantità di informazioni reperibili su internet, invece, i margini per il lavoro individuale crescono. In più, ho cercato di usare la rete per rendere efficace e divulgabile tutto il materiale raccolto e prodotto. Ho usato le debolezze degli algoritmi dei motori di ricerca per fare in modo che gli articoli venissero visualizzati fra le prime voci online.

L’obiettivo è fare in modo che chiunque, cercando informazioni su Genova, possa trovare facilmente la nostra narrazione. In ogni caso, non è cambiata la sostanza delle inchieste: lavorare con i documenti ufficiali rimane essenziale, e per trovare il punto debole delle carte bisogna leggerle in profondità. Ricordo quando sul finire degli anni ‘70 riuscii a discolpare una ragazza arrestata per brigatismo. Solo con lo studio approfondito degli atti processuali – verbali, cronologie, rapporti – è stato possibile trovare la falla e dimostrare la sua innocenza. In seguito, un senatore del PCI sollevò il caso in parlamento, portandolo alla ribalta e velocizzando lo scagionamento della ragazza innocente. Allora, in un certo senso, si lavorava all’ingrosso. I magistrati accusavano i militanti elevando la soglia, per cui, se rubavi un’auto ti imputavano il dirottamento di un aereo. Indagare per ristabilire le proporzioni era il nostro pane quotidiano.

Quali difficoltà “esterne” hai incontrato nel corso dell’indagine sul G8?

Nessuno ci ha messo i bastoni fra le ruote. Ciò che percepisco come prima difficoltà, l’autentico limite al lavoro di controinformazione, è il fatto che a pochi interessa sapere cosa è successo davvero. Perfino fra i militari citati nei nostri testi, nessuno ci ha denunciato per calunnie. Per loro è più importante non sollevare il passato. Solo una volta, nel corso della testimonianza davanti al giudice, il comandante dei carabinieri Giovanni Truglio ha cambiato espressione: ho visto i suoi occhi mutare lamentandosi delle “brutte cose” scritte contro di lui su internet. La sua smorfia faceva emergere il colpo subìto. Quello è stato un momento di soddisfazione, ma sul piano giudiziario i capi delle forze dell’ordine non pagheranno mai per quello che hanno fatto. La speranza è che gli storici, fra una decina d’anni, rileggendo le inchieste e gli atti, diano una versione dei fatti corrispondente alla realtà. La vittoria non sarà giuridica e si potrà avere, sotto il profilo dell’immagine, quando i figli dei responsabili delle violenze, navigando sulla rete, troveranno la verità su ciò che hanno compiuto i loro padri.

Spesso la controinformazione parte da presupposti ideologici. Questo elemento non rischia di essere un limite per inquadrare la verità dei fatti?

La controinformazione è per definizione ideologica, dal momento che scatta sempre da un torto subìto. Nessuno impegna le proprie energie, la sua vita, alla ricerca di qualcosa in cui non crede. Gli eventi devono colpirti anche emotivamente. Io riformulerei la domanda: “un ego ingombrante, l’innamorarsi delle proprie idee, è un ostacolo per le controinchieste?” Sì, questo è un enorme ostacolo, ed è un limite che ho sempre incontrato.

Negli anni ho capito che bisogna essere spietati con la propria logica, applicando sempre il rasoio di Occam: l’ipotesi più semplice è, molto spesso, quella più vera. Per questo io detesto le tesi complottiste. I problemi che talvolta avevo anche con utenti di Indymedia nascevano dalla necessità di far capire che le tesi improbabili andavano lasciate fuori dalla porta. Il complottismo è un balsamo che si utilizza per semplificare quando diventa difficile seguire e comprendere la concatenazione degli eventi, e con questo atteggiamento non si arriva da nessuna parte. Direi che il complotto è la pietra tombale delle controinchieste ed infatti io rifiuto l’idea che dietro le violenze a Genova ci fosse un precostituito disegno governativo. Fornisco un altro esempio. Noi non disponiamo del fotogramma in cui i carabinieri colpiscono Carlo Giuliani con un sasso, un’immagine che forse esiste ma che non è venuta fuori. Tuttavia, seguendo ogni episodio minuto dopo minuto, è conseguenziale ritenere quell’epilogo il più plausibile. Se c’è qualcuno che ha una spiegazione più semplice, riguardo la comparsa della pietra accanto al corpo di Carlo e riguardo l’evidente ferita sulla sua testa, io sono disposto ad accettarla.

Dal tuo lavoro di controinformazione quale panorama, quale visione generale emerge? Quale contesto, in sostanza, ha determinato le violenze del G8 di Genova?

La mia tesi, circostanziata negli articoli dell’inchiesta, è che esista, fra le forze dell’ordine – e specialmente entro l’Arma dei Carabinieri – un gruppo di militari capaci di dialogare col potere politico da pari a pari. Un fronte di pretoriani che non risponde a nessuna regola, vive nell’impunità e che né i partiti né altre forze organizzate hanno facoltà di limitare. Come se la sovranità dello Stato fosse circoscritta. Scorrendo nomi e cognomi delle gerarchie militari è impossibile non notare la presenza di personaggi con trascorsi risalenti alla strategia della tensione.

Finita la prima repubblica, scomparse le forze politiche di riferimento, si determina uno spartiacque che rende ancor più autonomo questo gruppo, le cui attività di violenza sono state riscontrate dalla missione in Somalia fino al G8 di Genova. Diverse carte processuali sostengono esplicitamente che nel luglio del 2001 la gestione dell’ordine pubblico è stata disastrosa. Molti responsabili, protagonisti di violenze, depistaggi ed omissioni nell’assenza di un intervento giudiziario, hanno perfino fatto carriera nei ranghi dell’Arma. Durante quelle giornate è stata messa da parte l’idea del controllo “dialogante” dell’ordine. Era come se gli scontri dovessero prevedere vincitori e vinti.

Dagli anni ’70 fino alla comparsa delle “tute bianche” c’era stata un’evoluzione, in Italia come nel resto del mondo, nella gestione dei cortei, che escludeva la violenza fra manifestanti e forze dell’ordine. A Genova, invece, riappaiono i provocatori nascosti fra i contestatori e l’omicidio di piazza Alimonda, seppur non premeditato, rientra in una filiera per cui sparare e uccidere viene contemplato. La mia valutazione, rispetto al futuro, è negativa. Le istituzioni, di fronte a tali, oscure, contraddizioni, volgono lo sguardo altrove. In questo contesto nessun movimento di protesta contro lo status-quo potrà liberamente opporsi al conglomerato di potere politico/militare che io ho definito una vera e propria “bestia nera”.

di Gregorio Romeo