Quando il sr. William Golding entrò nella classe in cui insegnava, gli alunni della terza B erano sparsi per l’aula a giocare a biglie e a carte. In fondo, il professore notò che due bambini si stavano contendendo una biglia: lo sguardo acceso, che i due si scambiavano, fece balenare a Golding un’idea. Dopo che i bambini furono ai loro banchi, Golding affidò ad uno di loro il compito di supervisionare i compagni mentre lui era fuori per una breve commissione. Ritornò, in silenzio, dopo venti minuti e si stupì di quello che vide: gli stessi due bambini, che si stavano contendendo la biglia all’inizio della lezione, ora si ritrovavano uno sopra l’altro. Il primo aveva il labbro gonfio, il secondo l’orecchio sanguinante ed il bambino incaricato di mantenere l’ordine urlava, invano, a squarciagola. Chissà cosa sarebbe successo se quegli stessi bambini si fossero trovati su un’isola deserta…

L’uomo produce il male, come le api il miele”

Se volessimo rispettare il desiderio dell’autore, dovremmo considerare il suo scritto non come un romanzo, bensì come una favola. Una definizione insolita per un libro di media lunghezza, ma come ci spiega bene William Golding, il suo fine è darci una lezione morale e l’unico modo per farci ingoiare la “pillola” amara è quello di “zuccherarla” con una trama attraente.
Il signore delle mosche è la storia che vede per protagonisti un gruppo di bambini sopravvissuti su un’isola deserta dopo una catastrofe aerea. La gioia di questa scoperta e la speranza di modellare una società a loro piacimento dureranno poco: in breve cederanno progressivamente ai loro istinti più viscerali. Un’atrofia che a poco a poco coinvolge tutti. Il sangue, le maschere, la lotta per il potere, la prevaricazione e il trionfo della follia imperversano senza riserve.
È la sfiducia nella natura umana di William Golding, l’infelicità antropologica dell’uomo. I tentativi dei bambini di raffazzonare un embrione di civiltà falliscono, tracimando nel sangue e nel terrore, proprio perché questi “soffrono di una terribile malattia: quella di appartenere alla razza umana”.
Una visione pessimistica della storia che pone da parte coloro che, con logica e razionalità, tentano di dirimere le difficoltà che s’incontrano, a favore di chi palesa la brutalità della propria indole.

Quel che è peggio, neanch’io me ne curo, certe volte. E se io diventassi come gli altri, e non me ne importasse più… che cosa succederebbe?

La scelta di aver usato dei bambini per portare avanti questa tesi non è casuale. In un bellissimo saggio di Corrado Augias e Vito Mancuso, Dialogo su Dio e dintorni, tra i tanti temi trattati, viene approfondito il concetto di male, di dolore e di salvezza. In uno scambio di lettere, gli scrittori hanno preso in considerazione due filosofi: Sant’Agostino e Fëdor Dostoevskij. Entrambi i pensatori si trovano d’accordo su come esista un divario morale tra il bene e il male e c’è possibilità di salvezza per ogni uomo. Sant’Agostino afferma che un peccatore ha la possibilità di redimersi attraverso l’esperienza del pentimento e del rimorso. Dostoevskij approfondisce ancora di più la questione, considerando non solo chi fa il male, ma anche chi lo riceve. Scava nelle contraddizioni dell’esistenza e fa emergere, con un urlo straziato, la più grande di tutte le ingiustizie: chi è costretto a subire i peccati degli altri senza la possibilità di reagire. “Se tutti devono soffrire per conquistare con la sofferenza l’eterna armonia, che c’entrano i bambini?”.
Il baricentro di questa discussione viene, forse, trovato da William Golding, affermando che i bambini appaiono innocenti soltanto perché non hanno mai avuto la possibilità di esprimere la parte malvagia che è in loro. Questo passo tratto dal libro può chiarire in poche parole tutto ciò che è stato discusso:

Ralph, ottenebrato da un orgasmo improvviso, violento, agguantò la lancia di Eric e la affondò contro Robert. «Ammazzalo! Ammazzalo!» […] Il desiderio di conficcare la lancia, di ferire, era irresistibile