Domenico De Lillo, nato a Milano nel quartiere Isola campione italiano del ciclismo su pista, è Ambrogino d’oro dopo Antonio Maspes (1961) e Sante Gaiardoni (1988).

«È una grande soddisfazione. In questi giorni ho ricevuto le congratulazioni da Gaiardoni e da molti atleti e amici. Sono nato a Milano esattamente nella stessa casa dove è nato Luciano Beretta, lui al primo piano e io al quarto. Fuori dall’abitazione hanno messo una targa in suo onore. E io mi chiedevo: perché a me no? Tutti rispondevano perché non sei ancora morto. Ma ecco, il premio è arrivato anche a me».

Una volta la pista del velodromo Vigorelli era la più famosa del mondo e vi gareggiavano tutti i migliori ciclisti. Cosa ricorda di quei tempi?

Erano i tempi d’oro c’erano gli allenatori e la scuola migliore del mondo.

Visti i regolamenti, lei ha dovuto aspettare i 18 anni per gareggiare su pista e nella sua specialità diventerà una stella internazionale: nove volte campione nazionale e tre medaglie di bronzo ai mondiali. Qual è stata la medaglia più sofferta?

La mia specialità è la più antica, nata nel 1985. Bisognava avere tanto coraggio e dimestichezza anche perché la bicicletta che si utilizzava era senza freni. Ricordo in particolare il primo campionato del mondo in cui avrei potuto vincere perché i miei avversari a otto giri dalla fine erano stanchi. Il mio allenatore mi diceva in francese di tenere duro e che il podio sarebbe stato mio. Io, invece, per non rischiare di perdere una posizione, non ci credetti fino alla fine e finii terzo.

Dopo il ritiro dall’attività agonistica è diventato allenatore e i suoi atleti hanno conquistato quattro campionati del mondo. Come è stato il lavoro dall’altra parte?

È stata una sfida con la Federazione: ho imparato ad andare sulla moto e ho detto che in cinque anni avrei vinto i mondiali. Così è stato. Successivamente sono diventato anche direttore sportivo e lì ho avuto le soddisfazioni più grandi portando la mia squadra formata da 13 corridori a vincere 27 corse sia del calendario nazionale sia di quello internazionale.

In qualità di professionista prima e ora membro della commissione tecnica della Federazione ciclistica italiana cosa ne pensa dello stato attuale di questo sport? In particolare del ciclismo su pista?

Purtroppo è chiaro che ai nostri tempi eravamo dei maestri di questa specialità. Oggi gli atleti vengono da ogni parte del mondo e c’è più competizione dunque è molto più complicato ottenere risultati. Da maestri, però, siamo diventati alunni e oggi non ci crediamo più, anche se molte squadre imitano il nostro lavoro del passato.