“Why not?”. Questa è la domanda che spinge a raccontare conflitti e situazioni, anche quelle più difficili da accettare, anche quelle di territori e popolazioni dimenticate. Questo è quello che ripeteva sempre Almerigo Grilz, giornalista triestino che ha documentato diversi conflitti in giro per il mondo. Da quello civile in Birmania ai campi della guerriglia antivietnamita in Cambogia, i reportage di Grilz immergono nei territori, nei conflitti, portano lo spettatore nel cuore dell’azione, tra i terreni minati e le mitragliatrici dei soldati. Grilz è stato il primo giornalista italiano a morire su un fronte di guerra, in Mozambico, il 18 maggio 1987, proprio mentre stava filmando e raccontando l’ennesima guerra civile dimenticata. Aveva 34 anni.

Almerigo Grizl con i colleghi e amici Gian Micalessin e Fausto Biloslavo.

Almerigo Grilz con i colleghi e amici Gian Micalessin e Fausto Biloslavo.

Proprio per ricordarlo, e per far sì che i giornalisti continuino a testimoniare, è stato creato un premio rivolto agli under 35 che vogliano cimentarsi nel reportage e nel racconto di un conflitto, che sia lontano o poco fuori dai nostri confini. Il premio è stato presentato tra le vetrate che si affacciano sul chiosco del Palazzo delle Stelline, nel cuore di Milano. Toccherà alla giuria, composta di giornalisti che hanno alle spalle una lunga carriera di esteri, esaminare i prodotti dei candidati, ed eleggere tra un anno i vincitori. Si tratta di un contributo e, allo stesso tempo, di una vetrina per i reportage che raccontano di popoli e situazioni dimenticate.

La multimedialità di Grilz si rispecchia nelle molteplici categorie a cui possono partecipare i giornalisti, dal linguaggio video, a quello scritto, fino a quello fotografico.

Gian Micalessin

Gian Micalessin

«Almerigo – ricorda Gian Micalessin, suo collega e amico fraterno – è stato il primo a capire l’importanza dell’immagine unita al racconto. Quando siamo partiti per il nostro primo reportage in Afghanistan nel 1983 volle a tutti i costi che portassimo oltre al taccuino degli appunti anche le macchine fotografiche e una cinepresa Super8. Un’idea di multimedialità che allora era ante litteram e oggi diventa estremamente attuale».

Il premio è un’occasione per sottolineare l’importanza del giornalismo di esteri, una categoria che torna alla ribalta ad ogni nuovo conflitto e che da più di un anno ha conquistato le prime pagine dei giornali con il conflitto tra Russia e Ucraina. Ma è anche un settore in cui è necessaria la preparazione, che tiene fuori l’improvvisazione e la discesa in campo improvvisa. Non dovrebbe inoltre essere monotematico proprio perché ha il mondo intero come soggetto e oggetto, ogni giorno vive permeato di conflitti, soprattutto quelli più dimenticati e fuori dalle ribalte mediatiche.

Per i giurati, guidati da Toni Capuozzo, e per i membri della commissione, da Giovanna Botteri, a Gabriella Simoni fino al fotoreporter Gabriele Micalizzi, il giornalista è necessario per riportare una ricostruzione completa e corretta di quello che accade oltre confine. Cambiano gli strumenti ma la necessità di stare sul luogo, a contatto con i protagonisti dei fatti, è sempre la stessa.

Il reporter Gian Micalessin: «Oggi vediamo le guerre attraverso i telefonini di chi combatte, di chi scappa, della popolazione civile e pensiamo di poter capire tutto quello che c’è dietro. Noi passavamo mesi con i soldati e le persone: così raccontavamo la guerra nella sua dimensione più completa e lacerante nel tempo»

«Da quando abbiamo iniziato noi, nel 1983 partendo dall’Afghanistan – ricorda Micalessin –, è cambiato il mondo, le tecnologie, il modo di raccontare le guerre. Quando noi partivamo, stavamo via due o tre mesi, per raccontare le guerre dimenticate, dove non arrivavano telecamere né macchine fotografiche, né telefonini o immagini satellitari. Oggi le guerre le vediamo attraverso i telefonini di chi combatte, di chi scappa, della popolazione civile. Le vediamo attraverso internet. Pensiamo di poter capire tutto quello che c’è dietro. Noi passavamo mesi con i soldati, i combattenti e le popolazioni civili. E portavamo indietro dei racconti che oggi probabilmente sarebbero definiti “vecchi” ma che raccontavano la guerra nella sua dimensione più completa e nel suo allungarsi nel tempo».

Ora viene data ai giovani giornalisti la possibilità di pronunciare quel “perché no”, “perché non raccontare?” che, come ricordano i colleghi Micalessin e Fausto Biloslavo, pronunciava sempre Grilz e lo spronava ad affrontare le situazioni più complesse, «quando mangiavamo solo una minestra rancida durante la guerra civile a Beirut. O quando siamo andati, nelle Filippine durante la caduta di Marcos, a documentare la guerriglia dei maoisti».

L’eredità di questo “why not” che Grilz pronunciava spesso continua a vivere in un premio che, come sottolinea Giovanna Botteri «può ricompensare chi ha raccontato e continua a raccontare i conflitti meno famosi, quelli di cui nessuno parla, e chi ha iniziato questo mestiere quando non era così glamour, ma bisognava scarpinare per giorni per portare a casa anche solo un servizio».

Il mestiere dell’inviato tra ieri e oggi

Per il fotografo Gabriele Micalizzi «in guerra non esiste un punto di vista giusto o sbagliato e noi giornalisti dobbiamo solo riportare quello che vediamo, senza commenti né opinioni»

Il mestiere dell’inviato di guerra è già complesso di per sé. A renderlo ancora più complicato, come rimarca Gabriele Micalizzi, è l’aspetto politico del conflitto. Il fotoreporter italiano ha visto e documentato gli scontri in Afghanistan, Striscia di Gaza, Libia e Donbass, e ogni volta si è trovato faccia a faccia con realtà e difficoltà diverse. «In Ucraina, io ero dall’altra parte – spiega Micalizzi -, quella che molti considerano la parte sbagliata ma che, in realtà, è il volto meno raccontato.

Gabriele Micalizzi

Gabriele Micalizzi

Da parte dei media europei e occidentali c’è stata e c’è tuttora una narrativa sulla guerra in Ucraina polarizzata».Arrivato in Donbass, all’inizio dell’invasione russa, Gabriele Micalizzi si è trovato a dar voce ad un punto di vista finora rimasto nella penombra: «Mi sono sentito libero di documentare una prospettiva considerata ‘sbagliata’, quando in realtà in guerra non esiste un punto di vista gusto o sbagliato. Noi giornalisti dobbiamo solo riportare quello che vediamo senza commentare, non siamo opinionisti», conclude Micalizzi, che ribadisce quindi l’importanza di un’informazione non viziata da giudizi e pregiudizi.

Un premio per ricordare cosa è buona informazione

«Andare, verificare, raccontare ciò che hai visto: questo è il presupposto per fare bene l’inviato». A spiegare l’importanza di un premio che, come quello dedicato ad Almerigo Grilz, valorizzi l’opera dei giovani reporter è Gabriella Simoni, storica inviata di Mediaset, da sempre in prima linea sui fronti più caldi.

«Andare, verificare, raccontare ciò che hai visto: è il presupposto per fare bene l’inviato. Questo premio è un modo per ricordare che cosa sia buona informazione», Gabriella Simoni..

«Questo premio è un modo per lanciare un segnale su cosa sia buona informazione, che non riguarda il mezzo ma il contenuto. Oggi i giovani rinunciano e disertano i mezzi di informazione tradizionali, sostituendoli all’online e illudendosi che sia una scelta autonoma. Ma la realtà è molto diversa: online sei passivo e c’è un algoritmo che sceglie per te cosa seguire».

Gabriella Simoni

Gabriella Simoni

Simoni ricorda invece il principio cardine su cui fonda la propria professione: l’importanza di verificare le informazioni, andando sul posto o attraverso un efficace fact-checking, «cosa che in Italia è ancora poco praticata rispetto alle testate straniere, per questo c’è un urgente bisogno di bravi giornalisti». E a corroborare la sua tesi porta un esempio concreto, tratto dalla più contingente attualità. L’inchiesta del Washington Post sulla presunta offerta del capo della brigata Wagner, Yevgeniy Prigozhin, di rivelare la posizione dei soldati russi agli ucraini in cambio del loro ritiro da Bakhmut è per la giornalista «una di quelle cose su cui non scriverei o scriverei usando il condizionale, citando la fonte e tutti i dubbi sulla sua veridicità. Ci vuole poco per rendere virale un video, molto di più per verificarlo. Questo modo di agire non significa essere nemici dell’informazione, della privacy o della cultura ma di tutto quello che è serio e certificato».