Sulle orme della ginestra Leopardiana – che si piega, ma non si spezza – ci sono storie di vita che parlano di resilienza, di sacrifici per la riconquista di un’identità che rispecchi chi si è oggi e non le scelte sbagliate fatte nel passato. Questa è la storia di Gea: “Ho 32 anni, sono un’assistente sociale e mi occupo di volontariato”.

Gea, però, è anche un’ex detenuta. La sua vicenda giudiziaria inizia nel 2011, per “reati legati a una relazione sentimentale”. Prima quattro mesi all’interno del carcere di Monza, poi cinque mesi ai domiciliari e poi – in attesa di un processo che ha tardato a concludersi – ha ripreso la sua vita, come una qualsiasi altra ragazza di 23 anni. Dopo un’esperienza “importante e dolorosa da tutti i punti di vista” come il carcere, ci si deve aggrappare a qualcosa per trovare lo stimolo di andare avanti. Sopratutto quando sei una ventenne con i sogni e le paure delle tue coetanee, ma un vissuto complesso alle spalle. Gea ha deciso di dedicare tutte le sue forze allo studio che considera la sua “rinascita”. Si è iscritta alla facoltà di scienze del servizio sociale per approfondire le discipline riguardanti il carcere “perché una volta che ci sono entrata ho capito che c’era tanto bisogno di parlarne e fare emergere le criticità di questo ambiente”. “Quello che ti manca di più è la libertà, ma non solo la libertà fisica: anche quella di poter progettare una vita, di poter progettare un futuro”

Sembra strano a dirsi, perché sarebbe più facile e comprensibile il tentativo di allontanarsi completamente da una realtà simile. Invece Gea, durante la nostra chiacchierata, ripete più volte con estrema dignità di non essersi mai voluta liberare di quella realtà e del suo passato, perché è un mondo che sta dentro di lei. “Un po’ per deformazione professionale – dice – e un po’ per l’importanza delle esperienze personali e relazionali di cui faccio tesoro”. Come spiega, infatti, l’aspetto più difficoltoso dietro le sbarre è proprio quello relazionale: con le altre detenute, con l’istituzione che è molto dura, con il mondo esterno. “Devi fare i conti con l’impotenza di poter essere quello che sei. È molto difficile dimostrare agli altri di non essere pericolosa e di potersi fidare, perché ognuno di noi conosce il suo percorso e dà per scontato che l’altro lo capisca, ma non è sempre così”.

Gea

Dopo i sette anni trascorsi in libertà nei quali ha conseguito la laurea triennale e iniziato la specialistica, la condanna è arrivata nel 2018 e l’ha riportata indietro nel tempo, costringendola per sei mesi tra le sbarre del carcere di Bollate. Gea ha finito di scontare la sua pena due anni fa ed è finalmente potuta uscire da quel circuito che “molte volte fagocita, perché spesso la tempistica tra la commissione del reato e l’esecuzione della pena è molto lunga”. Questo è un grosso limite perché – come nel caso di Gea – accade che persone incensurate che hanno commesso un reato e dopo hanno ripreso una vita normale, si ritrovano a dover rientrare in carcere dopo tanti anni con una situazione personale e lavorativa già inquadrata. Un taglio netto con la realtà costruita fino ad allora che a volte non ritorna più, rendendo molto complicato il reinserimento nella società. “A livello relazionale è stato molto difficile all’inizio perché cercavo di riprodurre all’interno del carcere quello che avrei fatto fuori con le mie amiche e questo non è sempre possibile: anche una gentilezza di troppo non sempre viene gradita”

In più – come fa notare Gea – c’è da evidenziare anche la differenza tra uomini e donne. Infatti, mentre gli uomini hanno più possibilità di reinserimento e ci sono più attività dedicate a loro,  le donne, se non hanno una famiglia, “sono costrette a farsi tutta la galera in carcere”. Per loro è molto più difficile la ricostruzione dell’identità perché subiscono un doppio stigma: donne e detenute. “La mia storia l’ho raccontata solo alle persone che ho reputato abbastanza responsabili da capire cosa fosse successo, perché la paura del giudizio c’è sempre e a volte ti spinge a nasconderti”.

Gea, appena uscita, si è fatta aiutare dalla sua famiglia, dai suoi amici e da psicologi. Però, nel suo racconto, fa riferimento anche a chi non ha alcun appoggio e si ritrova nel mondo esterno senza sapere cosa fare. In quei casi diventa quasi un “automatismo” tornare a delinquere. L’alto tasso di recidiva che c’è in Italia, infatti, spesso dipende dalla mancanza di possibilità. La capacità di rileggere e rielaborare la propria storia personale è fondamentale per la ricostruzione della propria identità.

Gea oggi ha vinto un bando per un tutorato e collabora con l’Università per indagini scientifiche sempre relative al carcere. Sta scrivendo la sua tesi magistrale sulla detenzione femminile e ha ripreso in mano la sua vita. Sorridente e soddisfatta racconta la sua esperienza, un’esperienza che abbatte gli stereotipi e ci permette di capire che non è mai troppo tardi per scrivere una conclusione nuova alla propria storia personale.