Nel villaggio di Bratunac, al confine con la Serbia, c’è un cimitero. Una sezione al suo interno è dedicata ai profughi di Hadzici: nel settembre 1995 la popolazione di questa località vicina a Sarajevo si era rifugiata a Bratunac per sfuggire agli effetti di tre tonnellate di munizioni all’uranio impoverito utilizzate dalla Nato per bombardare un deposito di armi delle truppe serbe di Slobodan Milošević. Il trasferimento fisico non è stato però una barriera sufficiente per sfuggire allo strascico dell’uranio, calcolato dall’esercito serbo in livelli radioattivi 3mila volte più alti della norma: molti ex residenti sono stati colpiti da patologie gravi e tra i morti c’erano molti giovani.
Il giornalista investigativo Sigfrido Ranucci, oggi direttore del programma Report su Rai 3, è stato autore di una famosa inchiesta sugli effetti dell’uranio impoverito nel 2003, in Iraq, Bosnia e Serbia. Sul dibattito in corso, per l’utilizzo dell’uranio nella guerra in Ucraina, dice: «L’uranio è un’arma controversa perché la sua pericolosità varia a seconda del suo stato ma se non è il killer è certamente il mandante di una serie patologie: non c’è da minimizzare»
Il giornalista investigativo Sigfrido Ranucci, oggi direttore del programma Report su Rai 3, ha raccontato tutto questo all’interno della sua inchiesta Vittime di pace, realizzata nel 2003 per RaiNews24 in un viaggio esplorativo tra Iraq, Bosnia e Serbia, Paesi allora in guerra. A distanza di vent’anni Ranucci avvisa: «Sembra di essere tornati in un incubo: oggi viviamo in un contesto di guerra che ci ha riportato indietro di settanta-ottant’anni. E credo che il peggio debba ancora venire».
Com’è stato accolto nel 2003 il suo lavoro sull’uranio impoverito?
«All’inizio ne era stata negata la presenza e la sua pericolosità, con diverse conferenze stampa anche di alcuni rappresentanti istituzionali della Nato. Quando poi fu fatto notare che gli stessi americani avevano diramato delle direttive e dei filmati dove invece si evidenziava il contrario, allora la sua tossicità ha cominciato ad essere ammessa. In un secondo momento era stato escluso che le patologie potessero essere connesse all’uso di queste armi: furono anche necessarie delle commissioni d’inchiesta su questo e solo recentemente alcune sentenze hanno confermato il nesso causa-effetto di queste malattie che hanno colpito militari e popolazione».
Quali rischi effettivi ci sono nell’utilizzo dell’uranio impoverito?
«L’uranio è un’arma controversa perché la pericolosità varia a seconda del suo stato: quello naturale è a bassa intensità, mentre lo scarto delle lavorazioni dell’uranio arricchito, usato per la fusione, è molto radioattivo e tossico. Non a caso molte industrie di armi, soprattutto quelle della Gran Bretagna, lo hanno utilizzato per smaltire i rifiuti nucleari: è il modo migliore per trasformare uno scarto in oro».
Questo processo di lavorazione come si converte nell’industria militare?
«L’uranio impoverito non è il killer ma è il mandante di una serie patologie. La sua qualità è la capacità di incendiarsi e polverizzare tutto ciò che gli sta intorno. Provoca esplosioni e incendi che possono raggiungere i 3mila gradi di temperatura, polverizzando anche i metalli più duri. Le nanoparticelle di uranio causate dalla sua distruzione superano le barriere del corpo umano e vi entrano, sviluppando delle patologie. Ne sono state trovate tracce in alcuni tessuti malati e nello sperma di numerosi militari che hanno sviluppato forme tumorali come linfomi e leucemie».
Senza contare i rischi dal punto di vista ambientale.
«Su questo bisognerebbe aprire un capitolo a parte: spesso l’uranio impoverito rimane intatto, quando non viene fatto esplodere durante le bonifiche, e impregna il terreno e le acque dei fiumi. È di grande urgenza capire i danni che produce all’ambiente. In realtà si tratta di danni inqualificabili sia da un punto di vista materiale che morale, perché piegano e condizionano per sempre una popolazione e un territorio».
Qual è il grado di consapevolezza dell’opinione pubblica su un tema così complesso?
«Sono argomenti molto difficili da far trapelare e digerire alle persone, perché richiedono una conoscenza variegata: tecnica, medica e scientifica. Per comunicare questi temi sono necessarie più competenze che lavorino sullo stesso argomento. Proprio a causa di questa complessità, l’opinione pubblica è molto condizionabile dalle versioni ufficiali e dai motivi stessi che muovono una guerra. Bisogna ricordare invece che i danni provocati dall’uranio impoverito rimangono sul territorio e danneggeranno per generazioni una popolazione».
Qual è, invece, l’atteggiamento dei governi?
«È provato che la tossicità dell’uranio impoverito fosse nota agli americani: dopo aver completato i bombardamenti in Iraq e nei Balcani, le forze armate americane avevano diramato direttive ai reparti alleati impegnati nella bonifica dei territori incentivandoli ad utilizzare tute di protezione e respiratori appositi nei territori con presenza di uranio impoverito. Molti militari italiani impegnati nell’operazione Vulcano, avvenuta nei Balcani nel 1999, sono stati mandati a raccogliere gli ordigni inesplosi rimasti sul territorio per smaltirli, facendoli poi esplodere in un cratere. Quelle polveri sono rimaste nell’aria: molti di loro si sono ammalati e hanno avuto figli nati con deformazioni congenite».
Oggi i governi e la popolazione sono più o meno sensibili a questo argomento?
«Non so se ci sia stata un’evoluzione. Sicuramente il fatto che non se ne sia parlato per molto tempo non ha favorito un dibattito serio a riguardo. Le persone faticano a comprendere i reali rischi legati a questo tipo di armi e spesso pensano che morire sotto una bomba all’uranio impoverito o ad una convenzionale non faccia così differenza. Vedo un’escalation continua nei discorsi di guerra nessun uomo di pace all’orizzonte».