Per strada c’è poca gente, qualche anziano signore che va in bicicletta e qualcuno che fa una passeggiata al parco.In piazza, davanti la farmacia Navilli, incrociamo altri giornalisti, tutti lì per raccontare Codogno a un anno da quel 21 febbraio 2020. In un attimo si ripiomba in zona rossa, in una città fantasma che sembra rivivere l’incubo di quei primi giorni quando nessuno sapeva esattamente cosa fare. L’Italia, l’Europa e il mondo intero iniziavano a parlare di Mattia Maestri, il paziente numero uno, e dell’anestesista Annalisa Malara, la prima a diagnosticare il caso italiano di Coronavirus da cui poi si sarebbe scatenato l’incubo nel quale ci troviamo ancora oggi. Mentre i camici bianchi – a cui è stata dedicata la giornata di oggi per l’impegno durante la pandemia – lottavano nelle corsie, i media accendevano i riflettori su questa piccola cittadina nella bassa lodigiana uscita ormai dall’anonimato. Nei primi giorni di marzo si contavano tra il quindici e i venticinque contagi al giorno e nel primo mese i casi registrati erano circa 300, troppi per una realtà di poco più di 15mila abitanti.
“L’unico rumore che sentivi era il rumore della sirena. Ricordo la fila fuori dal pronto soccorso, con decine di ambulanze in attesa di scaricare le persone che da lì a poche ore sarebbero state intubate”
Al sindaco della città, Francesco Passerini, trema la voce quando ci racconta di quella notte infinita in cui, allo scoccare della mezzanotte, arrivò la chiamata del prefetto che confermava il primo caso di Coronavirus a Codogno. «Uno dei dati che mi ha portato a proporre alla giunta quell’ordinanza di chiusura era stato proprio il numero di interventi che il nostro comitato di Croce Rossa aveva in coda, più di 100 interventi – aggiunge -. Tenete conto che normalmente ci sono quattro ambulanze che operano. Questo dà l’idea del mostro che si stava palesando sui nostri territori». Quella notte, infatti, sindaco, cittadini e forze dell’ordine non avevano ancora realizzato la grandezza di ciò che li stava colpendo. Inevitabilmente, questa consapevolezza li travolse presto come un vortice. «L’unico rumore che sentivi h24 era il rumore della sirena. È stata una bomba atomica, un terremoto. Ricordo la fila fuori dal pronto soccorso, con decine di ambulanze in attesa di scaricare le persone che da lì a poche ore sarebbero state intubate, molte delle quali, purtroppo, non ce l’hanno fatta».
“Immaginate tutti i giorni sei ambulanze che uscivano e non rientravano perché erano continuamente deviate verso altri indirizzi”
Nei primi centoventi giorni in zona rossa la Croce Rossa ha effettuato 2.223 interventi e tra ambulanze e auto mediche sono stati percorsi 149.122 chilometri. Lo ricorda bene Massimo Rocca, volontario della Croce Rossa di Codogno, mentre ci racconta di quel primo periodo «agghiacciante, che avevamo visto solo nei film di fantascienza». Ci accoglie in divisa davanti alla sede della Croce Rossa e con gentilezza ci fa accomodare nella sala grande, la stessa dove quella notte era appena terminato un corso di aggiornamento per i nuovi volontari, poi la scoperta del Covid. «C’era un’atmosfera spettrale, la gente non capiva veramente cosa stesse succedendo. Dopo un attimo di panico, non si è perso tempo. Ci siamo subito attivati, mettendoci a disposizione totalmente e non rispettando più le turnazioni classiche. Ci siamo attrezzati con i giusti dispositivi di protezione individuale, come se stessimo lavorando in un contesto affetto da Ebola e quindi abbiamo applicato il massimo livello di sicurezza».
Così i volontari hanno iniziato a lavorare incessantemente. «Immaginate tutti i giorni sei ambulanze che uscivano e non rientravano perché erano continuamente deviate verso altri indirizzi». Dopo la scoperta del paziente numero uno le richieste aumentavano e chiunque avesse avuto febbre o problemi respiratori iniziava a chiamare. «Una notte partii alle 19.30 e tornai la mattina alla 7 e contai circa 800 km – continua -. Era un via vai pazzesco, non vi dico i litri di carburante. L’AREU (Azienda Regionale Emergenza Urgenza) ti diceva: vai a Pavia. Aandavi lì ma ti rispondevano che erano pieni, allora andavi a Vigevano, a Varzi, a Casalmaggiore. Abbiamo spaziato negli ospedali più sconosciuti della zona, al punto tale che anche noi a volte dovevamo utilizzare il satellitare per arrivare. Il codice era rosso totale».
Così il 21 febbraio fu firmata l’ordinanza comunale, voluta dal primo cittadino, che chiudeva tutte le attività locali. «È un testo che nessun sindaco vorrebbe mai firmare – ci confessa – forse il più duro perché blocca le attività economiche della città, le zone di ritrovo, lo stare insieme, sospende la vita della comunità. È qualcosa che fa male: la penna pesa tonnellate quando ce l’hai in mano ma è un dovere che dovevamo prenderci e che ci siamo presi con tutte le responsabilità che avrebbe potuto comportare». Ancora oggi, un anno dopo quella firma decisiva, non è facile descrivere a parole quel periodo così inaspettato e incerto. Nonostante ciò, la reazione è stata immediata.
Con fierezza il sindaco Passerini elenca quelle azioni che hanno portato Codogno ad essere un esempio per tutte quelle città italiane che di lì a poco avrebbero vissuto lo stesso dolore. «Abbiamo subito istituito una cabina di regia, creato quel modello di binomio tra volontariato di protezione civile e volontariato civico. Abbiamo distribuito porta a porta le mascherine e cercato di restituire momenti di normalità, regalando l’8 marzo una mimosa alle donne, e a Pasqua un uovo di cioccolato ai bambini». Il sindaco è voluto entrare letteralmente nelle case dei suoi cittadini istituendo Radio Zona Rossa, un canale radiofonico che aveva lo scopo di diffondere informazioni utili a tutti, dai più giovani ai più anziani. Utilizzando le frequenze del rosario e della messa e sfruttando gli orari più strategici per andare in onda, le notizie hanno raggiunto anche quella fascia di età che non dispone di internet, ma che è stata maggiormente colpita dal virus.
“La cosa peggiore era vedere in faccia le persone che si presentavano davanti alla porta con il trolley in mano e con lo sguardo rassegnato. Tu imparavi a leggerli quegli sguardi e anche per noi era terribile perché sembrava che li portassimo alla condanna”
Il diario di Radio Zona Rossa, invece, aveva lo scopo di unire, attraverso la condivisione di foto, meme o video realizzati dai cittadini durante la quarantena in casa. Passerini prosegue: «Più andava avanti l’emergenza, più si abbassavano le risorse personali e più aumentava l’esigenza di sostegno alle persone, soprattutto l’emergenza alimentare. Noi abbiamo raccolto due tonnellate di derrate alimentari su 50mila abitanti, grazie soprattutto alla disponibilità di tanti centri di grande distribuzione che hanno messo a disposizione i loro prodotti. Il fatto di darsi tutti una mano, ognuno mettendoci del proprio è stata la forza di questa comunità. Da questa cosa, o se ne esce tutti insieme, o non ne esce nessuno».
E proprio il lavoro di squadra è stato fondamentale anche per i volontari della Croce Rossa, che notte e giorno hanno dovuto affrontare in prima linea il nemico. «Gli eroi non siamo stati noi: il vero eroe è stato il paziente, le persone che andavamo a prendere a casa» , chiarisce Massimo Rocca. «La cosa peggiore era vedere in faccia le persone che si presentavano davanti alla porta con il trolley in mano e con lo sguardo rassegnato. Tu imparavi a leggerli quegli sguardi e anche per noi era terribile perché sembrava che li portassimo alla condanna».
Mentre negli ospedali c’era il caos, le strade di Codogno e dei comuni limitrofi rimanevano vuote. Ad andare in giro c’erano solo le ambulanze. «Sembrava di essere in un campo di concentramento e ti si stringeva il cuore nel momento in cui a distanza di un chilometro ti trovavi un posto di blocco – racconta il volontario della Croce Rossa -. Una volta arrivammo a Piacenza: era la prima volta che ci facevano uscire dal lodigiano per portare un paziente, e mi ricordo bene la scena. In ospedale si erano preparati con uno stand dove fare il pre-triage: quando arrivammo noi con la nostra ambulanza e quando videro la scritta Codogno ci fu una fuga generale, si era creato il vuoto. Abbiamo riso al momento ma c’era tanta paura».
Eppure, nonostante la paura del contagio «non si sono viste scene di panico, neanche tra i cittadini e nemmeno davanti ai supermercati. Le persone di Codogno stavano in coda e nessuno mai osava passare davanti all’altro», dice con orgoglio. Dignità, solidarietà e comprensione sono stati i principi cardine fondamentali per superare la prima ondata. Quando ancora non si avevano certezze sulla strada da percorrere, sulla cura, sulle modalità di contagio o di utilizzo dei dispositivi di protezione, «la comunità – afferma il sindaco – prese da subito consapevolezza del fatto che la situazione fosse drammatica e che se ne poteva uscire solamente lavorando tutti insieme, ciascuno prendendosi la propria responsabilità e mantenendo comportamenti corretti». Quegli stessi comportamenti che il 21 febbraio 2020 ancora non erano stati metabolizzati, ma che oggi fatichiamo ad immaginare lontani dalla nostra quotidianità.
“In questo luogo non si vuole solo ricordare la morte, ma anche la forza e la resistenza della comunità. La volontà di arrivare al sole dopo la tempesta, ma soprattutto la vita
Nel pomeriggio la città di Codogno si risveglia e quella che sembrava una zona rossa torna a vivere. Due signore anziane prendono un aperitivo sui tavolini all’aperto del Caffè Cairoli. Sulle panchine del parco pubblico, moglie e marito si godono il sole tiepido di una bella giornata di fine febbraio. Poco prima che inizi la messa, una donna anziana parcheggia in tutta fretta la sua bicicletta fuori dalla parrocchia di don Iginio. La vita dei codognesi sembra essere tornata a un anno fa, ma quelle ferite che appaiono ricucite, in realtà, sono ancora aperte. Ci avviciniamo per scambiare qualche parola con due sessantenni, proprio di fronte all’asilo infantile Garibaldi, ma veniamo subito respinti con un «no, grazie» che ha il sapore misto della commozione e della rassegnazione. È passato troppo poco tempo affinché la tormenta che ha colpito i cittadini di Codogno venga dimenticata. Forse, non accadrà mai.
«Nella nostra città e in tutta la provincia di Lodi, il 21 febbraio è stato istituito come Giornata del Ricordo e della Resilienza della comunità» dice commosso il sindaco Passerini. Domani, 21 febbraio 2021, proprio di fronte alla sede della Croce Rossa di Codogno verrà inaugurata un’area di memoria e di ricordo: tre lapidi, come simbolo della battaglia combattuta durante l’anno appena trascorso. Passerini aggiunge: «In questo luogo non si vuole solo ricordare la morte, ma anche la forza e la resistenza della comunità. La volontà di arrivare al sole dopo la tempesta, ma soprattutto la vita».
Con una strana sensazione di essere entrati nella Storia, saliamo in macchina e lungo la strada di ritorno appare sulla destra un luogo che conosciamo bene. Quando la stessa immagine ti si ripresenta continuamente davanti agli occhi, rimane impressa come inchiostro nella mente. Per raggiungere l’ospedale di Codogno non è servito mettere il navigatore. Il ricordo indelebile di quei mattoncini color sabbia bruciata, prima sullo schermo della televisione e ora intravisti in lontananza da viale Alessandro Manzoni, ci ha portato proprio lì dove tutto ha avuto inizio. Quel luogo è esattamente come lo ricordavamo, ma oggi a mancare è il suono incessante delle sirene che lascia spazio a un silenzio altrettanto assordante.
Qui il video della nostra visita a Codogno un anno dopo