Cosa resta di noi (e delle notizie) dopo la quarantena? Resta quel che resta. I nostri trenta giornalisti hanno provato a fare una selezione rigorosa, tra fatti, riflessioni collettive e impressioni personali. Il risultato è un mosaico composito per un momento storico epocale che quasi nessuno dimenticherà. Buona lettura.
Pasquale Ancona
C’è stato un momento, in questi mesi, in cui i morti hanno smesso di essere morti e sono diventati soltanto numeri. Negli Stati Uniti, quando questi sono diventati “appena” 100mila, il New York Times ha fatto quello che deve fare il NYT: ha pubblicato una prima pagina con scritti mille brevi necrologi perché quei numeri tornassero ad essere persone. Queste “rappresentano solo l’uno per cento del bilancio totale dei morti”, si legge in una introduzione sulla pagina interamente occupata dal testo. “Nessuno di loro era solo un numero su una lista. Volevamo qualcosa che la gente potesse guardare tra cento anni e capire la portata di ciò che stiamo vivendo”. E ci sono riusciti.
Beatrice Broglio
“Here’s what Italians wish to do when they return to normal life” (“Ecco cosa gli Italiani vorrebbero fare al ritorno alla normalità”), pubblicava Bloomberg su Instagram il 7 maggio. Sul podio i tre tratti tipici dell’italianità: uscire a cena o a bere (39%), incontrare la persona amata e la famiglia (36%), vedere gli amici (33%). All’ultimo posto il ritorno al lavoro o a scuola (13%). «I couldn’t have guessed! What a surprise this chart!» («Chi lo avrebbe mai immaginato! Che sorpresa questa classifica!»), è il commento ironico di Kaitlin, una biondissima ragazza tedesca. Hai ragione Kaitlin, la notizia è una non notizia. Per due ragioni. La prima è che non c’è nulla di nuovo nel dare in pasto all’opinione pubblica il perfetto stereotipo dell’italiano medio che prima si diverte e poi, forse, lavora. La seconda è che i dati Ocse 2019 sulle performance scadenti degli studenti italiani, le poche politiche per il rilancio del Paese dal punto di vista dell’occupazione e le assolute incertezze sul rientro a scuola post Covid confermano esattamente ciò che emerge da questa classifica.
Fonte: https://www.instagram.com/p/B_4pmhLAzQQ/
Luigi Scarano
Lorenzo Cultrera
Hong Kong, Baghdad, Santiago del Cile, nel 2019. Tel Aviv e gli USA nel 2020. Sono solo alcuni esempi del mondo che scende in piazza facendo vacillare i governi e i loro leader, quando nemmeno una pandemia è riuscita a reprimere l’urlo della gente che, per svariati motivi, esprime disagio e sfida le istituzioni. Gli anni Venti del nuovo secolo, oltre che presentarsi con un emergenza sanitaria senza precedenti ed una crisi economica molto violenta, portano sempre le solite cose: disuguaglianze economiche e sociali, la corruzione dei politici, i privilegi dei potenti, la violazione dei diritti umani e politici e la discriminazione razziale. Poi il caso di George Floyd, che ha riportato alla luce il problema dei “rapporti di colore” negli Stati Uniti. In India il “regime” nazionalista indù del premier Modi ha scatenato un apartheid contro i musulmani. Ma non dovevamo essere migliori? Non dovevano essere gli anni del cambiamento? Gli anni di una presa di coscienza tanto agognata che avrebbe portato con sé il cambiamento. Forse dovremo aspettare ancora un po’. Causa emergenza sanitaria rimandato il cambiamento a data da destinarsi. Tranquilli, #uniticelafaremo.
Davide Cavalleri
Da bergamasco avrei un vastissimo campionario di immagini dal quale attingere per raccontare la vicenda Coronavirus. Dalla funerea processione di camion militari che mestamente portano via le salme dei defunti, passando per i balconi vuoti e le scritte “Tutto andrà bene” decimate rispetto al resto d’Italia. E poi le campane che smettono di suonare lasciando il posto alle sirene delle ambulanze, l’ospedale al collasso, i comuni della val Seriana abbandonati al loro destino. Le persone che se ne vanno. Ma credo che ci sia un’immagine che, meglio di qualunque altra, descriva questi sciagurati mesi a Bergamo: l’ospedale da campo allestito dagli alpini e dai volontari in tempi record. L’immagine di una città che soffre ma stringe i denti, che non concede il fianco a facili autocommiserazioni; che tiene botta con l’unica cosa che le riesce bene e che è nell’indole pragmatica del suo popolo: “Molà mia e fà indà i mà” (Non mollare e fare andare le mani).
Beatrice Barra
Ecco la proroga: lockdown prolungato fino al 3 maggio. Quasi un altro mese. Ne è già passato uno da quando la vita sembra essersi fermata. Come mi sento? Fuori e dentro. Fuori e dentro questa casa: fuori con il pensiero e dentro con il corpo. Fuori e dentro me: non mi trovo, ma non smetto di cercarmi. Fuori e dentro la mia vita: il mio mondo si è ridotto a ciò che posso scorgere dalla finestra, ma le mie giornate continuano ad essere piene. Fuori e dentro. Un paradosso che vive in ciò che vivo, in ciò che – probabilmente – sta attraversando il resto del mondo. Ricordo bene la sera del 9 marzo in cui venne annunciato lo stop: niente più spostamenti, niente più incontri. E ricordo bene anche i discorsi fatti fino a qualche giorno prima: “Si sta esagerando, ancora una settimana e ritornerà tutto alla normalità”. La nostra vita è così frenetica che non riusciamo nemmeno ad immaginare che si possa fermare. Ed eccoci qui, a doverci scontrare ancora una volta con il crollo di certezze che sembravano irremovibili. Stasera, seduta davanti allo stesso schermo freddo che mi consuma gli occhi tutto il giorno, penso a quanto sarebbe bello il calore di un abbraccio e la possibilità di vivere la vita che avevo scelto.
Viviana Astazi
Durante il lockdown, scandito dai bollettini sul numero di contagi in Italia e dalla lettura dell’ennesimo decreto, quella che si è sofferta di più è la lontananza. La storia di una 77enne di Aliano (Matera) è l’esempio perfetto di cosa ha significato per gli anziani vivere in solitudine. Il 14 marzo la donna prende il telefono e allerta il 112: “Venite, mi sento male”. I carabinieri accorrono sul posto con la guardia medica e finalmente scoprono che il malessere della signora non è fisico: “Scusate, non ho nessun parente. Sono sola e oggi è il mio compleanno”. La notizia ha fatto il giro del web, ha commosso innanzitutto i medici e i carabinieri rimasti a fare compagnia alla donna e ci ha fatto chiedere se anche noi, alla stessa età e nella medesima situazione, non avremmo reagito così. Se nel mondo pre Covid-19 era essenziale rallentare i ritmi frenetici della vita, magari passando il weekend a casa soli con noi stessi, l’isolamento forzato ci ha ricordato quanto bello sia il caos della quotidianità, piena di impegni, di rumore, del calore e della vicinanza delle persone che amiamo.
Fonte: https://www.ilmessaggero.it/italia/donna_chiama_carabinieri_compleanno_matera-5110827.html
Bruno Cadelli
“Fidarsi è bene, non fidarsi è meglio”: un detto popolare che abbiamo imparato sin da piccoli. Ce l’hanno insegnato le maestre, i nostri nonni, e anche i nostri genitori. Significa pensare con la propria testa e non abbassare mai la guardia. Tutto giusto, tutto sbagliato. La crisi sociale che stiamo vivendo è racchiusa in questo motto. Siamo sempre stati un branco di presuntuosi e abbiamo sempre creduto di potercela cavare da soli. Lo smartphone e la rete internet ci hanno fatto pensare di essere dei super uomini pronti ad affrontare tutto e a non credere più a nessuno. La nostra è la società dove bisogna essere scaltri e furbi. Pronti a fregare l’altro perché l’altro farà lo stesso con noi quando ne avrà l’opportunità. Il virus, forse, ha cambiato tutto. O almeno ci ha provato e ci sta provando. Il lockdown non ci ha fatto più inveire contro il medico o l’infermiere. Ci ha insegnato ad affidarci a chi ha studiato perché dovevamo essere curati. Molti hanno sempre visto con sospetto l’informazione dei telegiornali, della radio, della carta stampata. La quarantena forzata ci ha fatto fare un passo indietro. Le famiglie spaventate attorno ad un tavolo alzavano il volume della tv e stavano in silenzio durante il telegiornale. Si è riscoperto il bisogno di essere informati e si è nuovamente innescato un rapporto di fiducia con i giornalisti che sembrava perduto. E poi abbiamo dovuto fidarci della classe dirigente. Perché non c’era alternativa e tutti, proprio tutti, avevamo le spalle al muro. La ripresa della vita passa attraverso la fiducia verso l’atro. Questa dev’essere la normalità che tanto andiamo cercando e predicando. Il virus ci ha insegnato una sola cosa: cambiare quel detto popolare che abbiamo appreso sin da bambini. “Fidarsi è bene, non fidarsi è peggio”.
Giacomo Cozzaglio
Come ricordare la primavera del 2020? Per mesi tutto si è fermato. Una stasi irreale. In queste settimane era come vivere in un limbo: le notizie erano sempre le stesse e la sensazione era che fossimo tutti prigionieri di un incubo. Dalla mia città, Milano, al centro della regione più colpita d’Italia, mi ha impressionato come tanti, in un certo momento, abbiano sottovalutato il pericolo. Le sirene delle ambulanze, i dolori e le sofferenze delle persone custodite nell’intimo delle proprie case sono diventate quotidiane. Un’esperienza che lascerà cicatrici profonde alle quali dubito che un aiuto possa giungere dagli sterili appelli “andrà tutto bene”. Difficilmente potrò dimenticare, ma credo che questi mesi non debbano cadere nell’oblio perché essi ci hanno mostrato tutte le nostre fragilità. Tuttavia confido che da tanto dolore ognuno di noi possa riscoprire le cose veramente preziose della vita: i legami con coloro che amiamo.
Manuel Santangelo
La Pasqua 2020 ce la ricorderemo perché per la prima volta non abbiamo dovuto trovare scuse per restare a casa. Un’esperienza nuova per milioni di italiani, già pronti a inventarsi un guasto al lavandino per saltare anche quest’anno la tradizionale grigliata di Pasquetta. Per alcuni, però, è stata irrefrenabile la tentazione di fare il contrario, di uscire lo stesso fingendo di avere una buona scusa per farlo. In quei giorni si sono lette giustificazioni fantasiose, da far impallidire quelle di un tredicenne quando ha dimenticato di fare i compiti. Tra chi dichiarava di essere “stato costretto” a fare jogging per smaltire il pranzo di Pasqua, e chi sul modulo di autocertificazione scriveva «sono uscito di casa per andare a comprare le sigarette e ho percorso tutta questa strada per evitare il controllo di una pattuglia dei carabinieri», c’è anche spazio per una storia farsesca ma a suo modo romantica. Nel napoletano, un marito ha fatto finta di aver incontrato casualmente per la prima volta la consorte con cui sta da anni: per evitare la multa dei poliziotti, l’uomo ha iniziato a corteggiare la donna, come se si trattasse del primo approccio. L’inganno è stato presto svelato, l’uomo multato ma la signora, quantomeno, ha provato l’ebrezza di essere corteggiata come forse non sperava più.
Francesco Corbisiero
Si è parlato a più riprese – e non a sproposito – dell’emergenza Covid-19 come di un avvenimento così potente da mettere sotto gli occhi di tutti dinamiche dimenticate e in corso da tempo. Tutto ciò è particolarmente vero se si sceglie come osservatorio una qualsiasi città del Meridione, rimasto per fortuna al riparo dalla crisi sanitaria in senso stretto. Credevamo possibile un esodo al contrario così massiccio dai grandi centri del Nord – sedi del terziario avanzato e addirittura del quaternario – verso le città d’origine – dove non è raro che si fatichi a mettere insieme il pranzo con la cena – solo in occasione delle feste comandate e non invece in un clima di piena tragedia. All’inversione di tendenza, momentanea, di quel fenomeno noto col nome di spopolamento sono seguite le tensioni sociali. Sul rischio che a prosperare sulla disperazione di molti – documentata in vario modo – per la mancanza di mezzi economici con cui affrontare un lungo periodo senza entrate, fosse la criminalità organizzata, si sono scomodati ad avvertirci persino i servizi: d’altronde, a chi rivolgersi per un prestito con le banche chiuse? Eppure da decenni il Sud campa così, alla giornata, a forza di lavoro sommerso e stagionale, rendite che rendono sempre meno, in un lento ritorno all’Ottocento. È il grande rimosso della coscienza nazionale, lo scheletro nell’armadio delle classi dirigenti italiane, l’elefante nella stanza cui nessuno fa più caso: un parte del Paese è presente alla vita pubblica solo sotto forma di entità geografica. Ed è sparito dalla circolazione persino chi considerava quest’ultima una questione politica di prima importanza.
Alessandra Petrini
Il 9 giugno una donna abruzzese ha preparato 90 olive all’ascolana durante un intervento al cervello in “awake surgery”. Mi sembra un’immagine che può riassumere l’insegnamento che ho tratto da questa pandemia: di fronte a un qualcosa di enorme, a un qualcosa non ci saremmo mai aspettati, dobbiamo saper mantenere le nostre capacità. Niente, neanche il dolore e l’incertezza, deve offuscare la ragione. Ah, e se ci piacciono le olive ascolane, niente potrà impedirci di prepararle. Durante questa pandemia ho imparato qualcosa dall’enorme mole di notizie false circolata sulla rete: è proprio quando una notizia conferma il nostro pensiero, quando ci dice quello che speriamo di sentire, che dobbiamo metterla in dubbio. Perché le notizie false sono alimentate dal nostro bisogno di trovare sempre una spiegazione immediata agli eventi o, addirittura, un colpevole. Ma il mondo non è fatto per soddisfarci o confortarci. Dovremmo arrenderci al fatto che, a volte, certe cose accadono e basta.
Mattia Giangaspero
In un distretto rurale della città di Puri, nell’est dell’India, sono stati contati nel periodo del lockdown più di cinquecento persone ad aspettare di potere mettere piede in una bottega di alcolici. Scene analoghe si sono presentate di recente anche nella capitale Delhi, dove, nei pressi di un negozio di alcolici situato nel centro antico della metropoli, si è formata una calca di più di duecento persone, intenzionate ad acquistare le bevande in questione. Terminato l’orario di lavoro degli esercizi commerciali, tutta quella folla ha cominciato a protestare e a pretendere di entrare per fare acquisti. Di conseguenza, gli agenti hanno dovuto caricarli in attesa utilizzando i lathi, ossia dei lunghi bastoni di bambù con funzione di manganelli. I casi di assembramenti “esplosivi” davanti alle botteghe di alcool, stanno divenendo sempre più frequenti nel subcontinente indiano, con conseguente impennata, sul web, di sollecitazioni affinché il governo imponga nuovamente la chiusura di quegli esercizi commerciali per ragioni di ordine pubblico. Sui social anche è spopolato l’hashtag #LiquorShops divenendo in poco tempo uno dei più ritwittati nel Paese. Attualmente l’India è uno trai i Paesi più colpiti dall’emergenza Covid19, dopo l’America e il Brasile. Ad inizio pandemia la paura che la malattia potesse arrivare anche in India era altissima e le preoccupazioni erano legate sia alle tante zone di povertà presenti sul territorio, sia ad un sistema sanitario che soffre molte carenze strutturali. Dopo che gli italiani hanno dovuto soffrire quasi tre mesi di lockdown, senza la possibilità di uscire a fare una passeggiata, andare a cena con amici e parenti e poter tornare nelle proprie case, aver visto i cittadini indiani uscire, quasi liberamente, principalmente per andare a comprare alcolici è stato straniante. È un’immagine che, da una parte fa pensare alla loro povertà intrinseca che li spinge ad ubriacarsi invece di alimentarsi o curarsi, e dall’altra parte può essere letta anche in maniera ironica: basta un bicchiere di vodka e il Covid va giù.
Federica Magistro
Se è vero che siamo ciò che mangiamo, la lista della spesa in quarantena ci ha definito molto bene: pasta, che non guasta mai; farina, per qualsiasi preparazione e lievito, che serve sempre. Con la chiusura dei ristoranti, ci siamo messi il grembiulino e la pizza è diventata homemade, ma solo per coloro che, durante la spedizione settimanale al supermercato, armati di guanti e mascherina, hanno trovato gli ingredienti sugli scaffali deserti. Le statistiche mostrano come, nel generale boom degli acquisti da lockdown, abbia primeggiato la farina, seguita (+152%) dal lievito (+149%) e dalla pasta (+53%), ma anche dalla mozzarella per la pizza (+109%) e dalla passata di pomodoro (+50,8%), ricercati a tal punto da generare vere e proprie risse tra le corsie. Se da una parte il virus avrebbe dovuto cambiarci e renderci migliori, dall’altra non ha fatto altro che confermare alcune nostre certezze: quando il gioco si fa duro, gli italiani iniziano a impastare (e Feuerbach aveva pure ragione).
Alessandra D’Ippolito
Non avevo mai sentito un silenzio tanto assordante e forse non mi ero mai accorta di quanto potesse essere rumorosa una singola goccia di pioggia che cade in mezzo a una piazza deserta. Le preghiere, religiose e laiche, di tutto il mondo si sono unite la sera del 27 marzo sotto lo stesso cielo di Roma, mentre la pioggia tintinnava sui sampietrini e le sirene delle ambulanze facevano da basso continuo alla voce di papa Francesco. Qualche anno fa, piazza San Pietro era a due passi dal portone di casa. Ogni giorno la vedevo piena di turisti incantati da tanta bellezza, ma proprio per la folla non mi ero mai resa conto di quanto fosse grande e dispersiva quella piazza. Il papa, solo e impotente al centro del sagrato, ha rappresentato gli uomini impreparati ad affrontare la natura quando si rivela maligna. «Ci siamo resi conto di trovarci sulla stessa barca, tutti fragili e disorientati, ma nello stesso tempo importanti e necessari, tutti chiamati a remare insieme». Speriamo nella giusta direzione.
Luca Barenghi
Il lockdown è stato senza dubbio la restrizione più pesante imposta dai governi allarmati dalla diffusione del Coronavirus. Il non poter uscire di casa ha instillato in molte persone un senso d’invidia verso chi è costretto a farlo ogni giorno della propria vita: i senzatetto. Durante la quarantena, gli unici che potevano paradossalmente trascorrere le giornate all’aria aperta erano proprio quegli “invisibili”, che purtroppo,non hanno una casa dove rifugiarsi. Quasi per ripicca, in moltissime città italiane sono state rilasciate centinaia di multe ad altrettanti clochard, colpevoli di non aver rispettato l’obbligo di restare in casa per contenere la diffusione del Covid-19: sicuramente uno dei paradossi più assurdi legati a questo tempo Coronavirus.
Claudio Rosa
Giovanni Domaschio
Era il 25 aprile, giorno di festa secondo il calendario, ma l’ennesima giornata identica per me, bloccato nella casa della mia infanzia, un tuffo indietro nel tempo che mai ho programmato. Era sabato, sì, ed essere in quella casa di sabato per me aveva sempre significato una cosa: uscire con i miei amici di più vecchia data. Era però quarantena, “fase uno”, lockdown: l’imperativo, morale e legale, era di stare a casa, chiusi, blindati, al sicuro da tutto fuorché da sé stessi. Quella sera poi, è comparso Giuseppe Conte in televisione, e già mi ero preparato alla solita conferenza priva di novità, rassicurante ma sterile. Il presidente del Consiglio, invece, ha annunciato la fase due, pronunciando una formula che a me sembrò magica: “Dal cinque maggio si potrà fare ritorno alla propria abitazione, residenza, o domicilio”. Per molti, forse, sono state parole vuote, ma per me era libertà, era la chiave per riavere indietro la mia vita, per ricongiungermi con chi amo: era l’inizio della fase due.
Marianna Mancini
Un’altra giornata si è conclusa. Giorno di lockdown numero? Non ricordo. Le date si confondono tra loro e il tempo fluisce senza precise coordinate fra le mura di case che circondano vite sospese. Restiamo imbrigliati dalla stessa impotenza che ci attanaglia davanti alla tv, mentre aspettiamo lo scoccare delle 18, quando la Protezione Civile emetterà il suo bollettino quotidiano, apprendendo che, anche per oggi, la curva dei contagi non ha arrestato la sua ascesa. Mentre a Bergamo un esercito surreale di blindati sfila portando fuori dalla città le vittime di Coronavirus, qualcuno in corsia sta sacrificando la propria vita per guarirne centinaia di altre. È così frustrante questo disperato bisogno di eroi. Cerco di prendere sonno ingannando la mente, trasportandola in un altrove sconosciuto: impossibile. Anche i miei sogni hanno iniziato a temere il contagio.
Fonte da il Post.
Vittorio Maccarrone
Responsabilità. Una parola con cui, costantemente, dobbiamo fare i conti. Quando siamo piccoli la sentiamo pronunciare dai nostri genitori, dagli insegnanti, da chi, più grande di noi, ci prepara ad affrontare l’età adulta. «Mi raccomando, sii responsabile!», esclamava mia madre in aeroporto molti anni fa quando, ancora tredicenne, andai per la prima volta in vacanza studio con altre decine di coetanei. Spesso considerato un avvertimento minaccioso in gioventù, l’invito ad essere una persona responsabile assume significati diversi a seconda dei contesti sociali in cui è utilizzato. Nel mondo politico, ad esempio, guai se non ci fossero i responsabili. Fondamentali nel garantire gli equilibri parlamentari e la stabilità dei governi, idolatrati dai fautori delle leggi elettorali proporzionali, attaccati con veemenza dai gruppi extraparlamentari, indubbi capofila tra i deputati cambia-casacca, i politici responsabili sono l’essenza stessa della politica. Poi c’è la vita reale. Nel pieno della pandemia ho scoperto anch’io il reale significato di responsabilità. Non perché in passato non mi fossi trovato in situazioni che ne richiedevano una buona dose. Ma perché ogni piccola vicenda accaduta in questi mesi grigi e tristi ha contribuito, non riuscendoci, a mettere a dura prova le mia ancora immatura tendenza a preferire l’assennatezza all’istinto. Ed è così che, mentre migliaia di giovani studenti del Sud si ammassavano – comprensibilmente, dopo il primo annuncio della quarantena da parte del presidente del Consiglio, ma in modo irresponsabile – alla Stazione Centrale di Milano per prendere l’ultimo treno che li avrebbe portati tra le braccia delle proprie famiglie, io e altri miei colleghi “terroni” pensavamo fosse giusto e corretto rinunciare a tornare. I contagi cominciavano a salire vertiginosamente. Il numero dei morti era sì ancora basso, ma costituiva il primo campanello d’allarme sulla pericolosità del virus. Iniziata la quarantena, il buonsenso e la responsabilità hanno vacillato. Il valzer dei commenti social sull’efficacia del lockdown, sull’attendibilità di molte fonti (Organizzazione Mondiale della Sanità per prima), sul corretto comportamento da tenere durante l’applicazione delle misure restrittive, è stato grottesco. Pur criticando privatamente determinate scelte di natura politica, sono rimasto alla finestra a guardare lo spettacolo orrendo che offrivano le piattaforme come Facebook, Twitter e Instagram: un tripudio di odio, insulti e violenza vomitati sotto forma di commenti, reazioni ed emoticon ai post degli utenti che – a mio avviso erroneamente, ma, belli miei, è la democrazia! – si cimentavano in ragionamenti che esulavano dalle loro competenze. Sono rimasto quasi in religioso silenzio, in responsabile silenzio direi, non perché non avessi qualcosa da dire, ma perché mi trovano davanti a qualcosa di troppo grande, che non si poteva banalizzare con qualche riga scritta, magari, in uno stato emotivo decisamente precario. In questo, la politica non ha dato il buon esempio. Mentre richiedevano ordine e disciplina, i gruppi parlamentari non hanno mostrato neanche un minimo di unità nazionale. Con le immagini provenienti dalle terapie intensive dove i medici distrutti da turni stressanti c’imploravano di rimanere a casa e con i video strazianti dei camion militari colmi di bare provenienti da Bergamo, una collaborazione (anche di facciata!) tra le forze politiche sembrava il minimo. Invece niente. Anzi. Tra una giravolta e l’altra sulla necessità di aprire o chiudere il Paese, tra una conferenza che annunciava la «potenza di fuoco» (finora rivelatasi molto debole, poco più di una scintilla) e una dichiarazione sugli «affetti stabili» che si possono vedere «soltanto se sono amici veri», la politica ha dato il peggio di sé. I cosiddetti responsabili? Non pervenuti, se non per rilasciare qualche intervista ad altri giornalisti responsabili. Non tanto responsabile è stata quella che nelle intenzioni di alcuni dovrebbe essere la nostra compagnia di bandiera: Alitalia. Cancellati i voli presi per tornare a al Sud a Pasqua, irraggiungibili al loro call center: dopo aver trasformato il mio diritto al rimborso in un voucher da utilizzare per voli successivi, sono riusciti pure a eliminare il volo che mi avrebbe portato, finalmente, il primo luglio a casa. Una vergogna. Ma non solo. Anche un’ulteriore difficoltà nel mantenere la calma necessaria per rimanere responsabili. E infatti, nonostante le raccomandazioni dell’immenso viceministro Sileri ad incontrarsi solo con «affetti stabili», dall’inizio della “Fase 2″ ho dato un’interpretazione molto ampia di stabilità nell’universo affettivo. E, forse, anche se irresponsabilmente, ha pure funzionato. Adesso, però, torno a casa a Catania. Che Alitalia, responsabilmente, non mi rompa i cabasisi, avrebbe detto Camilleri.
Emiliano Dal Toso
Mi sono sempre preoccupato per le sorti dell’umanità e spesso mi domando come potrebbe finire il mondo. Mi fanno paura i film catastrofici, quelli in cui la Terra viene colpita da un meteorite oppure in cui le profezie dei Maya si tramutano in realtà. Nello stesso modo, conservo il timore di un terzo conflitto globale, dalle portate disastrose, considerata poi la bassa statura politica dei personaggi più potenti di questo momento storico. Mai avrei pensato che potesse essere un banalissimo virus a metterci di fronte al pericolo della morte, a farci riflettere sull’importanza delle nostre vite, in una maniera così improvvisa, imprevista e brutale che siamo passati in una settimana dalle discussioni su Bugo e Morgan a fare bilanci perentori e definitivi sulle nostre esistenze, perché nessuno davvero poteva immaginare che cosa sarebbe potuto succedere. Sono stati mesi infelici, vissuti tutti i giorni all’insegna dell’incognita. Non ne usciamo più forti, ma ora abbiamo la certezza che risposte non ne avremo. E allora, anche questa volta c’ha ragione Vasco: “Domani sarà tardi per rimpiangere la realtà, è meglio viverla”. Fino al fischio finale.
Natale Ciappina
Col Coronavirus non c’è certezza: tranne che sui droplet, le goccioline con cui il virus si diffonde per vie orali prendendo la rincorsa dalle interiora. È per questo che manteniamo il metro di distanza, è per questo che portiamo la mascherina: per schivare le goccioline, ecco. Ma vale lo stesso pure per le flatulenze? Un dubbio che si è posta anche l’ABC australiana. E la risposta è che sì, i gas intestinali possono essere letali, anche se vanno fatti ulteriori studi al riguardo. Da qui, una serie di dubbi: i pantaloni sono le mascherine del sedere, o le mascherine sono i pantaloni della faccia? Scorreggiare da seduti equivale a starnutire sul gomito? Quanto è sconsigliabile una dieta a base di fibre? Ovviamente questa notizia è una bufala del Lercio americano. Perché, si sa, ridere non ha mai fatto male a nessuno.
Fonte: https://nypost.com/2020/04/20/can-the-coronavirus-be-spread- through-farts
Francesca Canto
E’ il 22 marzo di questo folle anno 2020 e stiamo ancora cercando di capire se siamo in una puntata di Black Mirror o se la realtà distopica che stiamo vivendo sia la punizione di una qualche divinità in cui noi, occidentali ateisti e capitalisti, non crediamo più. La protagonista di questa storia è Elsa, un’anziana signora chiusa nella sua casa di Bergamo, che dopo la morte delle uniche amiche con cui condivideva chiacchiere e biscotti, è rimasta sola contro la pandemia. Come ben sappiamo, le restrizioni dettate dal governo non permettono ravvicinamenti o contatti prolungati, così l’unica compagnia che Elsa riceve è quella del servizio della spesa a domicilio. I volontari le lasciano le buste davanti alla porta di casa, la salutano e poi vanno via. Un breve contatto umano a settimana, inframmezzato dalle voci dei personaggi delle fiction popolari che provengono a tutto volume dal suo televisore. E poi c’è la seguitissima conferenza stampa delle 18, le parole poco rassicuranti dell’assessore alla Sanità lombardo Gallera, i momenti di paura, la solitudine. Un giorno la signora Elsa prende il telefono e comincia a comporre numeri a caso pur di parlare con qualcuno, ma l’anziana viene respinta, probabilmente perché i suoi interlocutori non comprendono la sua esigenza di sentirsi meno sola. La morale nell’era del Covid-19 pretende l’attenzione per le piccole cose, la responsabilità e l’amore per il prossimo. “Andrà tutto bene”, “il Coronavirus ci renderà delle persone migliori”, “Impareremo a dare più valore ai rapporti umani”. Quante volte abbiamo letto e sentito questi slogan, mentre rinchiusi nei nostri appartamenti, ci appellavamo ai luoghi comuni dell’ultima ora? La criminalizzazione della frenesia, della velocità e delle parole sbagliate ci ha travolti più di una qualunque strategia di marketing ben pianificata. Le parole scontate di cui ci siamo convinti, per cercare il buono laddove non c’è, ci hanno trascinati fino alla fine della “fase 1″, per poi scoprire che in fondo più che migliorarci, la pandemia ci ha peggiorati. E no, non siamo cambiati per niente. La quarantena forzata, somministrata senza istruzioni per l’uso e il tentativo di rendere piacevole la reclusione in casa, ha fallito ogni volta che ci allontanavamo dal telefono che mai spegniamo, per realizzare di essere schifosamente soli. La verità che tutti fatichiamo a raccontarci è che di lati positivi il Coronavirus non ne ha portati e che se nei rapporti interpersonali eravamo già mediocri, adesso ci scopriamo ancora più cinici ed iperattivi. Abbiamo perso tempo che dobbiamo recuperare e continuiamo a sbagliare, nascondendoci troppo spesso dietro una parvenza di finto buonismo. Però, nonostante tutto, quella di Elsa è una storia a lieto fine…“Buon pomeriggio, mi scusi, lei non mi conosce e il suo numero l’ho fatto a caso, prendendolo dall’elenco telefonico. Sono Elsa, di Bergamo, vivo sola e sono chiusa in casa da ventisette giorni, non ho nessuno. Il mio telefonino è un po’ vecchiotto come me, ma fa ancora il suo dovere. La spesa me la portano una volta a settimana alcuni volontari e me la lasciano fuori dalla porta con un buongiorno e se ne vanno, sono tanto cari – continua Elsa-. Le mie amiche purtroppo non ci sono più e avevo bisogno di ascoltare qualcuno, perciò mi son detta provo a fare qualche numero, i primi due mi hanno mandato a quel paese, ma in modo gentile. Mi può dire gentilmente con chi sto parlando e chi è che mi sta ascoltando, mi dica anche solo un buon buongiorno”. Dall’altra parte della cornetta c’è Franco, a casa con la sua famiglia da quattro settimane. Non riattacca, inizia a chiacchierare con lei e la invita a farsi sentire di nuovo se ne sentisse il bisogno.
Francesco Castagna
Malattia: il termine stesso è vago e specifico al tempo stesso. Ciò che è importante però è capire le dinamiche della sua eleborazione per ogni persona, quando questa ipotesi o realtà ci riguarda. Per una persona che fa parte della comunità lgbt non è un dramma parlare di malattie, non perché da sempre ci associano ingiustamente ad un virus come l’HIV, ma perché dagli eventi negativi abbiamo fatto un percorso di crescita e formazione che ci ha portato a poter sbandierare nel 2020 il senso di consapevolezza. Mi dispiace che in questo momento la comunità lgbt non sia stata presa in considerazione perché ciò che sono stati i dubbi e le paure di questi mesi potevano essere mitigati anche grazie a noi. Quelle che sembrano misure di sicurezza intollerabili e inapplicabili da gran parte della società noi le abbiamo assunte nella nostra lotta facendole diventare un punto di forza. La quarantena è stata una prova di forza per tutti: spesso mi sono trovato a raccontare ai miei amici quanto sia difficile, di questi tempi, non pensare al senso dell’attesa quando si entra negli ospedali per eseguire un test dell’HIV. Lì il tempo si ferma proprio come durante una quarantena solo che le emozioni sono moltiplicate per mille. Ti guardi intorno, essenzialmente non ti interessa molto delle persone che ci sono, ma le osservi e la tua mente vaga: “Ma no figurati se io sono uguale a loro”, pensi. Ed è lì che ti accorgi che non c’è niente di più democratico di una malattia. Il tempo si ferma, poi corre velocissimo con i pensieri fino a dove riesci ad arrivare con la mente, per poi tornare al tuo passato molto lentamente, per poter assaporare ogni singolo momento che hai vissuto.
Perché faccio questo paragone? Perché certamente molti di noi nel 2020 abbiamo pensato, fino a prima del Coronavirus, che non è possibile stare male per determinate malattie. Eppure cosa dovrebbe pensare un ragazzo di 20 anni in un Paese in cui non si fa abbastanza educazione sessuale?
Poi arriva il momento del rintocco, il momento in cui ti accorgi che la quarantena è solo uno stato mentale perché, in qualsiasi occasione, avresti aspettato anche due, o tre mesi pur di sapere di stare bene. Credo che i giovani d’oggi debbano ripartire da questo, soffermandosi a pensare che ci debba essere consapevolezza del fatto che ogni evento debba essere interpretato come un invito alla riflessione, all’interiorità e alla bellezza dello spirito. D’altronde, cosa può significare l’assenza di un rapporto umano se una volta chi rischiava di contrarre un virus come l’HIV sapeva che sarebbe andato incontro all’emarginazione sociale? La stessa dinamica rischia di replicarsi oggi, per i positivi da Covid-19.
C’è bisogno quindi di una riconsiderazione della sanità a livello mondiale che non crei discriminazioni di nessun tipo e che si impegni in egual misura per ogni tipo di malattia. E’ tempo di maturare questo pensiero, sperando che le persone che hanno vissuto questa quarantena abbiano pensato a cogliere l’attimo delle innumerevoli cose che “avrebbero fatto”, ma che poi non hanno mai potuto fare, e che prendano il coraggio a due mani per vivere pienamente la propria vita.