Raccontare i crimini di guerra russi con le fonti aperte rintracciabili online: è l’obiettivo che si è posto il collettivo OSINT for Ukraine. Project Mariupol. A Gateway to Evidence” è il titolo del progetto che trova compimento in una mappa accessibile su internet dove raccogliere e mettere a disposizione della collettività informazioni e potenziali prove sulle violazioni dei diritti umani compiute dalla Russia dal 24 febbraio 2022, giorno dell’inizio dell’invasione in Ucraina. Il direttore generale del collettivo, Deniz Dirisu, ha spiegato a Magzine.it i dettagli e le modalità del loro lavoro.

Chi siete e qual è il significato del vostro progetto?

«Siamo un collettivo fondato nell’aprile 2022 composto da circa 40 persone tra giovani professionisti e studenti. Tra noi ci sono molti ucraini, ma anche persone provenienti dal resto dell’Europa, dal Medio Oriente, dall’America e un po’ da tutto il mondo, perché questo è un tema che sta a cuore a molti. I membri del gruppo che si occupa di OSINT (l’intelligence condotta su fonti aperte, ndr) trovano informazioni e potenziali prove sui crimini di guerra e le inseriscono nelle nostre mappe pubblicate su MapHub. Attualmente abbiamo circa 452 voci che rappresentano potenziali e confermate violazioni del diritto umanitario internazionale e del diritto penale internazionale.

Il gruppo di analisi si dedica all’intelligence open source e all’analisi legale dei crimini di guerra e questo è ciò che ci distingue da tutti gli altri. Le informazioni che raccogliamo e le indagini che conduciamo hanno un valore pari alla consapevolezza che riusciamo a suscitare su di esse. Per questo pubblichiamo aggiornamenti sulle mappe, sul nostro collettivo e anche sulle nostre indagini. Ci sono già molti altri gruppi che analizzano la guerra in Ucraina, ma noi vogliamo creare una documentazione storica del conflitto per aumentare la consapevolezza nelle persone».

Come cercate i dati e come avviene il processo di controllo?

«I nostri dati sono raccolti attraverso le fonti aperte, ma soprattutto con l’attività di intelligence sui social media che raccogliamo da risorse primarie e, per lo più, secondarie. Cerchiamo filmati e foto provenienti dall’Ucraina che mostrano le conseguenze dei crimini di guerra o dei bombardamenti. Registriamo i link, salviamo i file e li archiviamo. Poi li pubblichiamo sulla nostra mappa con un link che riporta anche la posizione geografica. La nostra mappa è una porta d’accesso a queste prove, che forniamo agli accademici, ai ricercatori e a tutti coloro che vogliono avere informazioni e fare ricerche sulla guerra in Ucraina. A volte ci capita di correggere degli errori non causati da noi e lo facciamo cercando di rimanere indipendenti dalle fonti governative, utilizzando queste ultime solo per confermare o convalidare ciò che troviamo».

Quali difficoltà trovate nel raccogliere e analizzare i dati?

«Le difficoltà principali le riscontriamo con le fonti e i link che vengono cancellati. Poi dipende dal crimine che si sta cercando: gli stupri e le violenze sessuali sono difficili da pubblicare e da confermare, anche per rispetto nei confronti delle vittime. Ci sono fonti che dicono: «Sì, questa persona è stata violentata da questo soldato russo». Ma non c’è modo di confermarlo, quindi sono una tra le cose più difficili da trovare nell’intelligence open source, mentre i colpi di artiglieria e i bombardamenti sono piuttosto facili da rintracciare.

In altre occasioni, alcuni video vengono pubblicati con dei tagli in momenti specifici e trovare gli originali richiede tempo. Lo facciamo nel nostro tempo libero, perché siamo motivati e abbiamo a cuore il popolo ucraino. Avere risorse limitate ci costringe a dedicare più tempo alla ricerca dei dati, ma questo ci permette di essere un po’ più attenti nell’analisi».

Al termine del vostro progetto cosa pensate di fare con queste prove?

«Al momento l’obiettivo finale è creare una documentazione storica e continuare a sensibilizzare le persone. Il nostro collettivo sta entrando in quella che chiamiamo “fase 2”: il rafforzamento delle attività e della nostra professionalità. Vorremmo essere riconosciuti al più presto come una Ong no-profit. Siamo partiti da L’Aia, nei Paesi Bassi, perché è da lì che proviene la maggior parte dei nostri colleghi ed è dove ho studiato anch’io. Vogliamo comunque mantenere la stessa atmosfera che ci contraddistingue come collettivo, per creare più consapevolezza e dimostrare che siamo affidabili».