“Il podcast in Italia ha già un futuro. È già qui”. Lo dice Matteo Scanni, giornalista d’inchiesta e presidente del DIG (Festival del Giornalismo Investigativo). E i dati gli danno ragione. Risale al 2019 l’indagine Nielsen sul panorama degli ascoltatori italiani di podcast e audiolibri secondo cui – dal 2018 – ci sarebbe stato un incremento di 1.8 milioni di fruitori. Un dato rilevante per un genere di cui – in Italia – si sente ancora parlare molto poco, nonostante sia in forte crescita.
Da un’altra ricerca condotta da Edison (“Il mondo della voce. Come cambia l’ascolto per il tipo di formato audio”), infatti, si evince che dal 2014 gli ascoltatori del podcast siano passati dall’8% al 17%. Per cui, diventa imprescindibile parlarne.
“In generale il podcast sta vivendo un momento d’oro in Italia e in tutto il mondo – dice Matteo Scanni –, quindi anche nel campo del giornalismo che noi chiamiamo di qualità, ovvero quello d’inchiesta, diventa uno strumento prezioso per raccontare”. Tuttavia, la fortuna di questo genere nel mondo del giornalismo – e, in particolare, di quello investigativo – potrebbe sembrare strana. Si è soliti pensare che la migliore cronaca di un evento sia quella accompagnata da prove visive di ciò che si sta ascoltando o leggendo. L’immagine è la fortuna dell’epoca in cui viviamo e, ormai, sembra impossibile farne a meno. Se da un lato questo aiuta il giornalista e amplia la portata informativa della sua comunicazione, dall’altro impoverisce il suo ruolo: non c’è bisogno di tante parole quando c’è un’immagine che racconta una vicenda.
Il podcast si impone nell’orizzonte informativo come una rivincita della voce del giornalista che “diventa rilevante, perché fa da tramite tra la storia e l’ascoltatore”, come afferma Giulio Rubino. L’autore di Verified, podcast d’inchiesta prodotto in America riguardante le vittime di un predatore sessuale, afferma che la possibilità di essere la voce narrante di un evento significa anche “dover stare attento a me, a quello che ho sentito nelle diverse situazioni e a come i personaggi mi hanno influenzato. Questo cambia il punto di vista perché si è dentro la storia in prima persona”. Il punto di vista del giornalista non va associato alla mancanza di oggettività. “Credo che sbirciare la storia attraverso il proprio buco della serratura, portare un elemento personale all’interno del meccanismo di comprensione della storia sia arricchente e non nuoce alla ricostruzione”, aggiunge Scanni.
“Lavorare in un mondo così strutturato e disposto a fare investimenti mi ha permesso di rendermi conto della necessità e dell’importanza delle personalità specifiche: serve meno artigianato. C’è molto da imparare”
Il campo del podcast investigativo “è tutto da esplorare”. La capacità comunicativa di questo mezzo è più alta di altri, perché “l’audio soffre meno l’epidemia di disturbo dell’attenzione che ha preso la società”. Un longform in podcast, afferma Rubino, ha più possibilità di essere finito perché l’audio garantisce una concentrazione maggiore, necessaria per il racconto di storie complesse.
Il problema è lo stesso che investe tutto l’ambito giornalistico: riuscire a mantenere uno spazio di indipendenza, in cui gli autori siano i principali beneficiari. Come per tutti i lavori d’inchiesta, vi è una grande discrepanza tra quanto viene pagato chi lavora e produce e quanto invece viene destinato ai grandi network che li distribuiscono. “Tantissime grandi serie di grande successo su Netflix che usano il lavoro di giornalisti, per esempio, non hanno visto gli autori del lavoro compensati in modo corretto rispetto al guadagno del network”. Scanni fa notare come un’altra difficoltà – sempre legata alla distribuzione del prodotto – è che “il servizio pubblico e privato hanno sempre dedicato poco spazio, o mandato in onda a orari proibitivi, i prodotti investigativi”. Effettivamente, se si pensa al palinsesto televisivo – a parte programmi consolidati come Report, le Iene, Presadiretta o simili – non sono presenti prodotti di carattere investigativo. Il risultato è che “alla fine dell’anno ci sono lavori strepitosi di cui, semplicemente, noi non abbiamo avuto traccia”.
“Il bello del podcasting è il fatto di essere un mondo sperimentale. Fino a che rimangono libere le piattaforme di distribuzione va tutto bene, spero che rimanga così”
Oggi sono tantissimi i podcast di grande successo in Italia. Su Audible – azienda leader nella produzione e nella vendita di programmi di intrattenimento – , per esempio, “alcuni titoli che sono in classifica sono investigativi: racconti che cercano di riaprire delle pagine storiche per scoprire nuovi dettagli e personaggi inquadrando la ricerca in modo innovativo”, continua Scanni. Basti pensare a “Polvere” – che con le voci di Cecilia Sala e Chiara Lalli – racconta l’omicidio di Marta Russo alla Sapienza. “Veleno”, di Pablo Trincia e Alessia Rafanelli, che indaga la complessa vicenda giudiziaria che ha coinvolto alcune famiglie del Modenese per pedofilia e satanismo. O ancora, “121269. È tutto rotto” – di Alberto Nerazzini e Alessio Sceresini – che ripercorre la strage di Piazza Fontana tra ieri, oggi e domani. All’aumento della produzione corrisponde un aumento della richiesta del pubblico che, come abbiamo detto, è cresciuto tantissimo ed è composto da una fascia molto ampia che va dai 18 ai 40 anni. Seppur la struttura di racconto complessa propria del giornalismo investigativo rende impegnativo l’ascolto di un podcast d’inchiesta, “la fruizione di questi prodotti, ormai, è stata metabolizzata” ed è entrata a far parte delle abitudini degli italiani.