Il 7 dicembre Massimo Fini è stato premiato con l’Ambrogino d’oro, l’onorificenza che il Comune di Milano conferisce a uomini e donne che si sono distinti per meriti verso la città. Un importante riconoscimento che segue di qualche mese il premio Montanelli alla carriera: «Non me l’aspettavo – spiega -. Ho vissuto e ho raccontato Milano per molto tempo. Non so se ho dato lustro alla città. Sicuramente Milano ha dato tanto a me».
A sedere su una poltrona rossa accanto a una scrivania ingombra di carte, di libri, di appunti dai quali fa capolino una Olivetti Lettera 32, Massimo Fini sta spiegando come e perché il giornalismo in Italia soffre di una grave crisi di libertà e d’identità. Parla piano e lento. Gesticola poco e rimane fermo, seduto in punta alla poltrona. La voce leggermente nasale: «L’Italia è una società familista e mafiosa. Questo si riflette anche nel giornalismo».
Non c’è astio nelle sue parole, ma una sorta di bonomia beffarda. Mangia con calma una sigaretta da masticare e si alza dalla poltrona rossa solo per andare a prendere un bicchiere di vino. «Dopo gli anni ’70 i partiti hanno infestato le redazioni e se ne sono impossessati. Non ci sono editori puri, o comunque sono rari. Detesto gli Stati Onestà intellettuale: voce fuori dal coro, Massimo Fini ha sempre rifiutato sottomissioni umiliantiUniti, ma lì i giornalisti scrivono cose anche contro gli interessi del loro paese. In Italia questo è quasi impossibile». Sul muro a cui volge le spalle, la copertina della sua opera teatrale il Cyrano, se vi pare.
Massimo Fini è nato giornalista e pensava di morire giornalista, così dice, ma a poco a poco un’emarginazione silenziosa, sottile, felpata, lo ha costretto nell’angolo della professione: «Il mio torto – spiega – è stato quello di rifiutare infeudamenti a partiti, fazioni, correnti e lobbies e di non accettare sottomissioni umilianti».
Si è messo allora a scrivere libri ed è diventato scrittore. E dopo la censura televisiva del un suo programma Cyrano, è stato costretto ad andare a teatro. Ed è diventato anche attore. Fini non minaccia la fine del giornalismo, ma la deduce con un ferreo sillogismo: «Essere giornalisti è scrivere quello che si vede, senza omissioni di comodo. Oggi, per fare questo mestiere si deve piegare la schiena e seguire le direttive di chi comanda. È un sistema deleterio per i giovani: chi non vuole prostituirsi è destinato a essere ghettizzato».