Parlando di Mario Dondero, Livio Senigalliesi non può nascondere la commozione. Le domande diventano un punto di partenza per entrare in un universo di ricordi, aneddoti e sensazioni che fanno il giro d’Europa, per finire quasi sempre alle amate osterie di Parigi.
Fotografo da più di trent’anni, Senigalliesi cominciò a lavorare quando Mario Dondero era già affermato. Bastò poco perchè i due diventassero buoni amici e Senigalliesi restasse per sempre affascinato da quell’uomo a cui la definizione di “fotografo” sta molto stretta.
«Mario era molto di più, era un uomo incredibile – racconta Senigalliesi – direi da commedia all’italiana: il suo posto è tra Gassman, Tognazzi e Walter Chiari».
Chiunque abbia incontrato Mario non ha potuto che innamorarseneChe persona era Mario Dondero?
Aveva uno spessore umano enorme che vedo riconosciuto da tutti quelli che in questi giorni stanno lasciando un pensiero. Chiunque lo abbia incontrato non ha potuto che innamorarsene: era un fantastico attore della propria vita, un uomo che amava vedere e raccontare storie, anche attraverso la fotografia.
Si può dunque dire che la fotografia era uno strumento e un mezzo, più che un fine.
Proprio così. La fotografia era una modalità di racconto, lui non si sarebbe mai definito un artista. La fotografia era funzionale a ciò che voleva trasmettere, che arrivava limpido e puro grazie ad un modo tutto personale di capire gli altri ed entrare in empatia con loro.
Come riusciva a creare questo rapporto con chi gli stava intorno?
Mario occupava letteralmente la scena. Ti dava appuntamento e magari si presentava il giorno dopo, come se fosse la cosa più normale del mondo, poi ti proponeva un giro in questo o in quel bar, o nello studio di qualche artista. Aveva sempre qualcuno da presentarti. Uscivi con lui per un caffè in tarda mattinata e sapevi che rischiavi di tornare a casa due giorni dopo.
Raccontava storie e aneddoti finché ne aveva, entrava nei locali come stesse salendo su un palco. Tutti lo conoscevano e tutti ne erano affascinati. Improvvisava le giornate: viveva con una sana sbadatezza e con lo sguardo incantato di un bambino, anche a ottant’anni.
Viene in mente il titolo che Fellini voleva dare ad 8 ½: la bella confusione. Questo suo essere fuori dalle righe lo si percepisce anche dal fatto che non abbia mai voluto organizzare le sue foto in un archivio completo
Proprio così, tanto è vero che era la figlia a cercare di fare un po’ di ordine da qualche anno, perché altrimenti si sarebbe corso il rischio di perdere molte delle sue foto. Lei si è preoccupata di raccogliere il materiale, digitalizzarlo e conservarlo, anche se sono sicuro che qualcosa sia impossibile da recuperare.
In che senso?
Chissà quante volte è capitato che Mario salisse un treno o su una metropolitana, scendesse di corsa e lasciasse lì qualche rullino…
Mario Dondero non ha mai nascosto il suo credo politico. Come ha influenzato il suo lavoro?
Mario è stato sempre coerente. Lui, partigiano già a sedici anni, non è mai sceso a compromessi con nessuno quando si trattava di ideali. Non si sarebbe mai sognato di fare un clic per una foto che non voleva fare, solo perché su commissione.
Il bianco e nero è un metodo più essenziale di restituire una scena che Mario amava moltoMario Dondero prediligeva il bianco e nero rispetto al colore, nei suoi lavori passati così come in quelli più recenti, Afghanistan compreso. Solo una scelta estetica?
No, il bianco e nero trasmette emozioni che il colore, in certi contesti, non è in grado di rendere. È sempre una scelta da parte del fotografo che chiaramente si deve adattare a ciò che ha di fronte, ma che, tendenzialmente, col bianco e nero può restituire una profondità diversa. È un metodo più essenziale di restituire una scena che Mario amava molto.
Dondero ha sempre lavorato con la pellicola e mai con il digitale. Come interpreta questa scelta?
Credo che sia un bel messaggio. I trentasei scatti di un rullino sono più che sufficienti, a me non piace questo consumismo attorno alla fotografia. Certo, il digitale ci aiuta in molti casi, ma è inutile produrre migliaia di scatti per altro modificati poi al computer. Si perde il senso di quello che facciamo, la foto serve a catturare un momento, assaporarlo, non è un gesto banale.
Come viveva gli ultimi mesi di malattia?
Era affranto. Per uno che amava la vita nel modo viscerale e autentico in cui la amava Mario, dover rinunciare alle proprie energie era avvilente, tanto è vero che non si sentiva più a suo agio in quel tipo di esistenza.
C’è una parola che racchiude tutto quello che è Mario Dondero?
Era semplicemente un mattatore, nella vita come nella fotografia: credo che ai giovani che leggeranno queste parole faccia bene conoscere la grande storia umana di Mario Dondero.