John Shields è direttore dell’Innovation Lab sul podcast a The Economist; è produttore sia di singole puntate che di serie di podcast. È stato il creatore di Checks and Balance, il podcast sulla politica americana di The Economist. Nel corso della sua carriera ha lavorato come editore in radio al programma Today della BBC.

Al Festival Internazionale di Perugia ha discusso con altri colleghi del nuovo Rinascimento del formato audio. Il podcast permette un nuovo modo di fare storytelling, andando più in profondità delle storie raccontate, ma allo stesso tempo non sostituisce le notizie del giorno. Il formato audio aiuta le persone a raccontare le loro storie più intime, senza la pressione della telecamera. Il podcast può anche diventare una terapia per chi si sente solo. Il pubblico di oggi è molto interessato a questo nuovo formato, è comodo e veloce da usufruire, e non implica una completa distrazione da quello che si sta facendo. In alcuni Paesi ha permesso di formare delle vere e proprie comunità, accumunate e collegate dal formato audio. Si arriva a pensare che l’audio sia uno dei migliori modi di fare giornalismo.

Secondo lei, quali sono i vantaggi del formato audio?

«Credo che ci sia qualcosa nel momento in cui ascolti una voce, e non vedi la persona in video. Devi usare il cervello per dare un’immagine a ciò che stai ascoltando. Stai cercando di riempire degli spazi vuoti, e questo crea sicuramente un’esperienza più ricca e coinvolgente per l’ascoltatore: egli si aggiunge a un lavoro che è già stato svolto, si crea una sua realtà e questo è parte della magia del formato audio. La parte finale del progetto viene svolta da chi lo ascolta».

Quindi il formato audio ci permette di essere più creativi?

«Sì, stranamente anche se stai solo ascoltando allo stesso tempo diventi un partecipante attivo a quello che viene detto. Questo potrebbe anche giustificare perché i podcast di True crime sono molto popolari: mentre la storia ti viene raccontata cerchi di indovinare il colpevole, di capire il perché una certa azione è stata commessa. Ovviamente ciò succede anche in un buon articolo di giornale, dove assieme al giornalista cerchi di capire che cosa succederà dopo, ma come detto prima l’audio permette un’esperienza più immersiva».

Cosa pensa dell’audio usato per fare cronaca sul campo? Ad esempio nella guerra in Ucraina.

«È qualcosa che ognuno può fare. Inoltre, oggi si riesce a registrare e riportare la cronaca utilizzando solo il cellulare: in questo modo riesci ad essere meno invasivo e a mantenere un profilo più basso nelle zone di rischio. Devi solo premere il pulsante “registra”. In questo senso la tecnologia diventa un grande vantaggio, poiché ci permette di essere più efficaci e veloci, e di incorrere in meno rischi».

Quali pensa siano le difficoltà principali dell’audio e del podcast? Se ci sono.

«La cosa principale è che è difficile avere una sensazione globale di quello che stai facendo. Non puoi fare delle stime come con un tweet: il podcast è collegato ad un link, lo puoi riprendere ad ascoltare quando vuoi. Ci vuole un po’ per capire se e come sta circolando e la reazione del pubblico. Con un tweet, entro poche ore puoi capire cosa ne pensano gli altri e se hai fatto qualcosa di interessante. Questo processo con il podcast è molto più lento, è bello perché rimane nel tempo, ma non avere subito riscontri può anche essere frustrante».

Crede che il podcast avrà ancora più successo in futuro? In che modo?

«Ho passato molto tempo in America, e sembravano essere più avanti sul formato audio podcast rispetto al resto del mondo. Ora molti Paesi si stanno allineando nella produzione di podcast, riuscendo a formare comunità in tantissime lingue diverse. C’è ancora tanto da fare e da scoprire. La radio e il podcast non sono morti, stanno solo evolvendo assieme alla società. Sono rimasto molto colpito qualche tempo fa dalle parole del CEO di The Economist, che mi ha detto: “Forse un giorno le persone ascolteranno The Economist, invece di leggerlo”. È una possibilità, chi può saperlo!».