“L’Africa è il cuore nevralgico del mondo, e il Congo è il cuore del cuore”. Le parole della drammaturga statunitense Eve Ensler riassumono l’essenza di un Paese che le deve molto. Fu lei a creare la cosiddetta “Città della Gioia” a Bukavu, per dare sostegno alle donne congolesi vittime di abusi sessuali. E chissà se questa volta “saranno (proprio) le donne congolesi a curare quel cuore”, come auspicava allora Ensler. A distanza di vent’anni dall’inizio di quel progetto, il Congo è ancora un cuore ferito, che continua a battere su due frequenze diverse: da un lato, il battito lento e pieno di speranza, alla continua ricerca della pace, dall’altro quello veloce e incessante della guerra.

Il Congo oggi è un cuore ferito che continua a battere su due frequenze diverse: da un lato, il battito lento e pieno di speranza, alla continua ricerca della pace, in attesa della visita di papa Francesco. Dall’altro, quello veloce e incessante della guerra e degli attacchi, l’ultimo dei quali in una chiesa di Kasindi, per mano dell’Isis

In questi giorni, un nuovo episodio di violenza ha riportato il Congo in prima pagina sui media internazionali. Una bomba è esplosa in una chiesa pentecostale nella città di Kasindi, causando 17 morti e diversi feriti. Il feroce attacco è stato rivendicato dall’Isis, ormai saldamente presente in questi territori. La tragedia è avvenuta nella regione del Nord Kivu, al confine con l’Uganda. Due anni fa, sempre in quelle zone, nella città di Goma, era stato ucciso l’ambasciatore italiano Luca Attanasio e proprio a Goma è stata cancellata la messa che Papa Francesco avrebbe dovuto celebrare nei prossimi giorni.

Troppi i rischi in quelle aree, ma la missione di pace di Bergoglio passerà comunque dal Congo, nel suo viaggio africano programmato dal 31 gennaio al 5 febbraio. Questa sarà l’occasione, almeno per i media italiani,  per riportare l’attenzione sulla complessa situazione politica e sociale in cui è immerso il Paese. Come ricorda padre Giulio Albanese, missionario comboniano esperto di questioni africane e già fondatore dell’agenzia di stampa Misna, “lì la guerra va avanti da vent’anni ma non è mai stata mediatizzata”.

La guerra parte dalla corsa ai giacimenti minerari che pullulano nel Nord Kivu e fanno gola agli Stati confinanti e non solo. In Congo, infatti, oltre al petrolio, all’oro e ai diamanti, è presente un enorme quantità di coltan, una lega di columbio e tantanio che viene utilizzata negli strumenti tecnologici di tutto il mondo per ottimizzare il loro consumo energetico.

La lotta per le materie prime, nella quale sono coinvolte le più grandi multinazionali mondiali, alimenta la ferocia di decine di bande armate nelle, stando alle stime delle Nazioni Unite, militerebbero circa 20mila persone, tra cui moltissimi giovani. “Tanti ragazzi che vivono nelle baraccopoli – spiega padre Albanese – vengono risucchiati dalla malavita organizzata per andare alla ricerca di denaro. Questo è il risultato delle disuguaglianze sociali che generano violenze anche nei confronti dei cristiani”.

Padre Giulio Albanese, missionario comboniano: “Si parla poco del Congo, un Paese vittima della corsa alle materie prime e delle bande armate. Se viene data alle fiamme una moschea nessuno ne parla ma se viene bruciata una chiesa tutte le agenzie del mondo ne parlano”.

Le chiese, infatti, vengono considerate il simbolo della ricchezza occidentale e per questo diventano l’obiettivo principale dei gruppi armati. Un obiettivo che viene colpito anche in funzione mediatica. “Se viene data alle fiamme una moschea nessuno ne parla ma se viene bruciata una chiesa tutte le agenzie del mondo ne parlano”. La religione viene quindi strumentalizzata e diventa arma di distruzione di massa in mano agli estremisti.

In molti casi, i gruppi armati diventano a loro volta uno strumento di controllo esercitato dai potenti per avere il predominio sui territori congolesi e sulle materie prime, come il cobalto. “Dietro le quinte – conclude padre Albanese – si celano interessi legati a compagnie straniere e a nazioni che si qualificano come democratiche e avanzate, ma che causano guerra e violenza”. Tra queste la Svizzera, il Lussemburgo, gli Emirati Arabi Uniti, la Cina.