Normalmente basta una frase, probabilmente la più celebre di quelle pronunciate dai suoi numerosi personaggi, per provocare una fragorosa risata nella platea: “Io sono un automobilista, ed essendo un automobilista sono sempre, costantemente inca***to come una bestia!”. Gioele Dix (pseudonimo di David Ottolenghi) è una pietra miliare dello spettacolo italiano. Attore, regista teatrale, scrittore, narratore e, naturalmente, comico. Un artista a tutto tondo, capace di passare dalla leggerezza della risata alla profonda riflessione scaturita da una lettura o da un monologo.
A causa della chiusura di teatri e cinema, anche lui ha dovuto posticipare o addirittura annullare “una quarantina di spettacoli rimasti in sospeso da febbraio-marzo”; ma non si perde d’animo Dix e, dalla sua Milano, analizza con grande lucidità la difficile situazione dei teatri e della cultura italiana.

Il settore dello spettacolo è stato uno dei primi a subire gli effetti della seconda ondata. Come mai secondo lei? Lo riteniamo un elemento superfluo e relegabile ad un secondo piano?

Non sarà di certo quest’ultima e difficile prova a farci capire che la cultura in Italia non è molto considerata. Purtroppo, è una questione annosa che affonda le radici negli ultimi decenni. Quando cominciai io, cioè nella seconda metà degli anni ’70, fare teatro era considerata una cosa importante, che aveva una sua dignità e un suo ruolo sociale. Ora si è innescata una situazione che ha visto gli spettacoli e i lavoratori dello spettacolo come le prime vittime e non solo per colpa del Covid. È ovvio che siamo in sofferenza, ma io non farei del vittimismo: più che protestare perché chiudono i teatri, bisognerebbe mobilitarsi, alzare la voce per rivendicare l’importanza del ruolo dello spettacolo e per avere dei sostegni-ristori importanti fin da subito.

Come ha vissuto il primo lockdown e come si appresta a vivere questa seconda chiusura?

Il primo lockdown l’ho vissuto con un atteggiamento a metà tra la paralisi attonita e il desiderio di reagire: privatamente sono riuscito a fare poco o niente. Ho provato a scrivere ma non mi usciva nulla. Però c’era sempre questo desiderio istintivo di reagire e allora ho provato a proporre sui social i Giovedix: degli spettacoli che facevo live al teatro Franco Parenti e con i quali portavo alcuni testi letterari sul palco e li raccontavo.
Questa seconda ondata mi coglie con la necessità di predispormi al dopo perché non voglio farmi trovare impreparato. È vero che la creatività non è a comando, però bisogna entrare nell’ottica che dopo le giustificazioni non funzioneranno più e resisterà chi si farà trovare preparato alla ripartenza.

Per uno che lavora in teatro il rapporto con la platea è decisivo. Come è riuscito ad interagire con un pubblico filtrato dallo schermo di un computer?

A me i social non dispiacciono e ne sono pure un moderato utilizzatore, però non mi scaldano molto le relazioni online. D’altra parte, il mestiere dell’attore ha bisogno del filo diretto con lo spettatore. I social propongono questa forma di partecipazione fasulla: uno non sa mai se il pubblico apprezza davvero o meno. Non c’è sangue che scorre, non c’è sudore, non c’è la risata che scalda come quando sei in una sala gremita, perché la risata è contagiosa (a proposito di contagi): torneremo a farci contagiare solo dalle risate. E questo l’ho constatato anche quest’estate quando mi è capitato di fare alcune serate davanti ad un pubblico tutto sparpagliato e con le mascherine che coprivano i sorrisi: mi sembrava un flop perché l’atmosfera non può ragionevolmente essere la stessa.

Insomma, mi pare di capire che i “surrogati” social non siano del tutto di suo gradimento.

Io non condanno i social e le dirette, ma per fare l’attore e il comico non vanno bene. Ad esempio: a settembre ho fatto una bella diretta di un’ora con alcuni miei pezzi comici e dopo ogni battuta mi trovavo a dover lasciare una pausa vuota di qualche secondo immaginando che, dall’altra parte dello schermo, qualcuno stesse ridendo. Il teatro lo si fa dal vivo, c’è poco da fare. Oggi ho visto i commoventi funerali di Gigi Proietti: quando io lo vidi dal vivo la prima volta nel ’75 fu folgorante. A teatro era una cosa eccezionale, potentissimo perché sapeva generare emozioni ed è proprio per questo che il pubblico italiano l’ha amato. In effetti, è anche confortante sapere che il nostro mestiere ha senso solo se fatto per gli altri e con gli altri. È un po’ come una messa: la puoi fare se hai le persone che ricevono la comunione, se no ha poco senso.

Più volte nei suoi spettacoli e nelle sue apparizioni televisive ha interpretato personaggi che accingono a piene mani dai comportamenti dell’italiano medio (penso all’automobilista inca***to, su tutti). Farà la stessa cosa anche dopo questi mesi di lockdown?

Per fare questo tipo di comicità bisogna essere bravi a star dietro all’attualità, a quello che accade nella cronaca. Crozza è maestro in questo e infatti si è già inventato l’imitazione di un virologo. Io preferisco lavorare sulla storia. Credo che proverò comunque ad elaborare qualcosa in merito a tutto quello che questa vicenda ha significato e come ha influito sui nostri comportamenti. Devo dire però che non condannerei gli italiani: tutto sommato ci siamo comportati mica male, soprattutto durante il primo lockdown.

Le chiedo uno sforzo di immaginazione: come vede il mondo dello spettacolo nei prossimi mesi?

Purtroppo non tutti ne usciranno con le ossa integre, anzi, alcune realtà forse non riusciranno a reggere il colpo e dovranno abbassare il sipario definitivamente: penso a quelle realtà più piccole dove si fa teatro di sperimentazione o i teatri di quartiere. Io però sono convinto che, in tempi medio-lunghi, avremo una spinta forte, probabilmente mai vista nel recente passato, data dal fatto che noi attori avremo voglia di tornare sul palcoscenico e il pubblico avrà voglia di tornare in sala. Aggiungo che sarà importante fare tesoro di questa esperienza per poterla raccontare anche a teatro: sarà interessante vedere le rielaborazioni che ne faranno gli artisti perché è solo grazie al lavoro di chi sale sul palcoscenico che, secondo me, vedremo se ne saremo usciti migliori o peggiori da questa pandemia.