Giancarlo Comi, primario del Servizio di Neurofisiologia Clinica, è direttore della Divisione di Neurologia e dell’unità di Neuroriabilitazione, nonché direttore scientifico del Centro Sclerosi Multipla del San Raffaele di Milano. Primo vincitore italiano nell’ottobre 2015 dello Charcot Award, massimo riconoscimento nel campo della ricerca sulla Sclerosi Multipla, riceve l’Ambrogino 2015.
A lei si deve l’idea del trattamento precoce della sclerosi multipla: quanto fu difficile affermare la propria idea anni fa e che cosa è cambiato dagli anni ‘90?
Si trattò di capovolgere lo schema di trattamento vigente ai quei tempi: allora si riteneva che si dovesse graduare l’intensità del trattamento in relazione al fallimento di trattamenti meno potenti, e di conseguenza meno pericolosi; l’approccio privilegiava apparentemente la sicurezza rispetto all’efficacia.
L’idea di fondo della mia tesi era che fosse meglio giocarsi le carte migliori il prima possibile, perché la malattia nella sua fase iniziale è più debole, quindi più facilmente affrontabile. Chi si opponeva allora era poco convinto dell’efficacia dei trattamenti. Con gli sviluppi successivi, a mano a mano che abbiamo avuto terapie più potenti, il problema è diventato quello del trattare subito e in modo più efficace.
Quanto è importante la coordinazione tra i vari reparti che si occupano della ricerca e del trattamento della sclerosi multipla?
Oggi non è neanche immaginabile pensare di poter effettuare una ricerca che sia realmente fruttuosa e competitiva se non attraverso la costituzione di una massa critica di ricerca che consenta di perseguire gli obiettivi in modo efficace. Uno dei motivi fondamentali per cui l’Italia è all’avanguardia nel mondo nella cura della SM è che, sin da quando arrivò la prima terapia efficace, il legislatore, per limitare le spese, attribuì la possibilità di somministrare queste terapie solo ad alcuni centri selezionati: questo ha fatto sì che si creassero dei centri altamente competenti.
È la dimostrazione di come certe scelte strategiche possano veramente cambiare la situazione. Il San Raffaele fu forse il primo ad intuire tutto questo: ciò ha consentito a me di essere semplicemente il portatore di un’eccellenza e di avere questo riconoscimento, che non è personale ma di un’idea. Ecco, se dovessi attribuirmi un merito, è di aver avuto quest’idea e di averla perseguita caparbiamente, quella di creare una grande massa critica: oggi, in questo team, abbiamo dei ricercatori che sono, nel rispettivo campo, all’avanguardia nel mondo.
Che cosa sentirebbe di dire ai giovani ricercatori riguardo alla possibilità di fare dell’ottima ricerca in Italia, e, ancor più nello specifico, a Milano?
Credo che storicamente Milano costituisca un incubatore di altissima rilevanza per quanto concerne la ricerca biomedica. Sono sempre stato dell’idea che costruire delle cattedrali nel deserto, cioè realizzare dei centri di ricerca in sedi distaccate o lontane, sia assolutamente infruttuoso. In un centro di ricerca gli investimenti tecnologici devono ogni volta essere collocati laddove è possibile veramente avere una possibilità d’interazione: altrimenti non ha senso farlo. Io ho avuto una doppia fortuna, ero a Milano e mi trovavo nel primo istituto di ricerca biomedica del Paese.
È quel pizzico di fortuna che serve avere, quello di essere in un certo posto in una certa fase. C’è però un’altra dote che è essenziale, ed è quella di pensare che tutto è possibile: non è vero che non ci sono potenzialità. Le potenzialità ci sono e bisogna essere caparbi nell’inseguirle e osare: ritenere che solo noi possiamo essere veramente preclusivi delle nostre potenzialità. Credo che ciò debba essere sentito come una responsabilità e chi è stato messo nelle condizioni di poter andare in campo a giocare partite molto importanti deve sentirla su di sé. Perché ciò che è veramente colpevole è sciuparla non impegnandosi al massimo.