Ad aprire le danze del DIG Festival 2020 è stato l’intervento di uno degli attori più versatili, trasformisti e talentuosi offerti dal panorama cinematografico italiano: Elio Germano. Ma cosa ci fa il vincitore di quattro David di Donatello e di una Palma d’Oro a Cannes ad un festival di giornalismo investigativo? Uno degli obbiettivi prefissati dagli organizzatori di DIG è stato quello di dimostrare come la mescolanza di ambiti apparentemente distanti tra loro come cinema e giornalismo possa soddisfare uno dei bisogni primari dell’uomo: la ricerca della verità. Ed è proprio da questa unione tanto efficace quanto affascinante che abbiamo deciso di parlare con il neo-vincitore dell’Orso d’Argento al Festival del Cinema di Berlino.

Sappiamo che il cinema si rifà spesso e volentieri a storie inventate. Il giornalismo, invece, tende ad indagare la realtà. Come si intrecciano questi due mondi? E secondo te quanto pesa un prodotto di giornalismo investigativo nel mondo dell’industria cinematografica?

Un po’ come in tutti gli ambiti lavorativi ci sono vari modi con i quali abbracciare il proprio mestiere. Tanto chi scrive storie quanto chi le va raccontare sono in qualche modo persone che cercano di mettersi al servizio della collettività per dare una forma di arricchimento e per raccontare noi stessi. Sotto questo punto di vista penso che il giornalismo, ma anche il cinema e il teatro, anche se in maniera più deformata, siano una sorta di specchio capace di raccontare le vite di ognuno di noi. Il giornalismo cerca di essere il più riflettente possibile, cercando di rimanere il più fedele alla storia originale. La modalità con cui si affronta il proprio mestiere è fondamentale. Questa sera ho parlato di sincerità, di sparizione dell’individuo e di mettersi a disposizione del proprio lavoro: penso infatti che ciascuno di noi nella vita quando si mette al servizio di qualcosa di più grande, soprattutto se questo qualcosa è la collettiva, fa un lavoro migliore e soprattutto, quando la sua fatica è conclusa, è sicuramente più felice, contento e soddisfatto del risultato ottenuto. Pur essendo una cosa capace di accomunare tutti gli ambiti lavorativi, assume un’importanza fondamentale nei lavori di comunicazione. Questo vale tanto nel lavoro quanto nel privato: ad esempio, quando si vuole mandare un messaggio a qualcuno se si sta troppo tempo a scriverlo e riscriverlo perde inesorabilmente di sincerità. Non è più funzionale. È meglio una cosa con errori ma più diretta. Questa sera mi ha fatto molto piacere portare questa testimonianza e cercare di dimostrare l’esistenza di un legame tra la fiction e la realtà, un po’ come quello che intercorre tra cinema e giornalismo.

Festival come DIG possono sensibilizzare e creare un punto di incontro tra questi due mondi?

In primis, eventi come questo, mostrano cose che purtroppo non vediamo. È assurdo che prodotti giornalisti come quelli presentati al DIG non siano diffusi in continuazione su tutti i canali mainstream.

Secondo te perché?

La sincerità è una cosa molto scomoda. Oggi quello che funziona è un’informazione polarizzata e al servizio di qualcos’altro, di un secondo fine: per far eleggere un politico o per non farlo leggere oppure per lodare un personaggio famoso o screditarlo. C’è una mancanza di sincerità. Questo accade anche nel mondo del cinema e della musica. Tutte le cose che sono fatte per il piacere di essere fatte e non sono veicolate da uno scopo di lucro hanno paradossalmente più difficoltà ad essere realizzate. Ritengo che chi si dà da fare, si impegna nel fare prodotti come quelli al DIG in maniera schietta, sincera e senza alcun tipo di filtro dovrebbe poter arrivare a tutti.

Questa mancanza di sincerità dipende più dalla scarsa voglia degli spettatori di guardare prodotti che affrontano tematiche “scomode”, dalla mancanza di coraggio da parte di chi li produce o per la mancanza di mezzi?

Questo è un problema nel quale siamo immersi tutti. Chi è che fa una vita sincera? Chi è che può permettersi di dire quello che pensa? Ci sentiamo continuamente sotto giudizio e questo ci blocca nella vita. Stiamo sempre attenti a come gli altri ci guardano per i motivi più disparati: come siamo vestiti, come ci comportiamo o quale genere di musica ascoltiamo. Tutto questo si riflette anche nell’ambito del lavoro. Gli altri fanno qualcosa meglio di noi? E noi ci sentiamo quasi obbligati a far vedere che siamo più bravi. Questo modo di fare, che io reputo estremamente malsano, va contro quella sincerità di cui spesso parlo. Ognuno di noi dovrebbe guardare maggiormente dentro di sé, ascoltarsi e capire quello che si vuole. Questo vale ovviamente tanto nel mondo del lavoro quanto nei rapporti umani. Questo modo di rapportarsi con sé stessi e con il prossimo fa rima con felicità.