“Se la Tunisia crolla del tutto si rischia una catastrofe umanitaria, con 900mila rifugiati”. Giorgia Meloni lo ha dichiarato al Consiglio Europeo lo scorso 23 marzo. Secondo gli esperti si tratta di una stima nettamente al rialzo, ma l’emergenza è reale. Mohamed Challouf, intellettuale e regista tunisino, spiega a magzine.it che il Paese è una bomba a orologeria. L’immigrazione dall’Africa subsahariana e la profonda crisi economica che attraversa il Paese occupano i titoli dei media tunisini ormai tutti i giorni. Per quantificare la dimensione dell’emergenza basta una percentuale: i giovani che lavorano senza protezione sociale sono il 42%, quasi uno su due secondo gli analisti de lavoce.info. Per le Nazioni Unite il numero di migranti tunisini in Italia è decuplicato rispetto al 2022: nel primo trimestre di questo anno ne sono arrivati oltre 12.000. “Tutto il mediterraneo è esplosivo”, ammonisce Challouf, e la Tunisia è la minaccia che potrebbe innescare l’esplosione.

Il presidente Kais Saied ha denunciato una “sostituzione etnica”, scatenando un clima d’odio contro i migranti. “Parole improprie, il razzismo purtroppo qui c’è” spiega Challouf. Al centro del conflitto tra tunisini e subsahariani la questione del lavoro

La Tunisia è al centro di una crisi migratoria. Il presidente Kais Saied lo scorso 21 febbraio ha parlato di “un piano per la sostituzione etnica”. Cosa sta succedendo?
Il presidente ha esagerato a usare quelle parole, sono state improprie. La situazione politica e sociale della Tunisia, con lo sbandamento dopo la rivoluzione araba del 2011, è però in effetti molto negativa dal punto di vista economico. Non si può nascondere che in nord Africa siamo abbastanza razzisti, ma il problema non riguarda tutta la popolazione. Come in Italia la paura per l’altro è stata strumentalizzata per mettere insieme partiti basati sul populismo, che demonizzano e rendono il nemico chi è diverso. Questa realtà ha sicuramente alimentato il razzismo.

Come valuta l’eco internazionale riservata alle dichiarazioni del presidente Saied?
Il presidente ha un modo di gestire il potere autoritario e ciò ha reso l’interno paese molto fragile agli occhi della comunità internazionale. L’arrivo di persone dall’Africa sub-sahariana, persone che io ritengo fratelli, è dovuto a necessità economiche. Le parole del presidente Saied sono state amplificate dai media, in un certo senso è stata anche una campagna dei giornali francesi per destabilizzare la presidenza, usando queste parole e strumentalizzandole. Sono dichiarazioni da condannare, ma è stata restituita una immagine esagerata della condizione dei migranti subsahariani.

Esiste quindi un conflitto tra tunisini e subsahariani o no?
Il conflitto c’è e riguarda prima di tutto il mondo del lavoro. Molti tunisini non sono più disposti a svolgere le mansioni più umili, né gli impieghi stagionali. Così questi lavori sono presi in carico dai migranti sub-sahariani, disposti a farli per mettere da parte soldi e potere fare la traversata verso l’Europa. Così il mercato del lavoro effettivamente è stato viziato al ribasso. Si tratta, però, di un paradosso: i tunisini non vogliono svolgere queste mansioni e poi protestano se li fanno i migranti. Rimane però una solida e numerosa comunità di sub-sahariani giovani ben integrati che si sono iscritti alle università, contribuendo all’economia e partecipando alla ricchezza culturale del paese.

In che modo il quadro politico si intreccia con questo clima di tensione?
A partire dalla rivoluzione del 2011 l’opposizione e chi stava al governo non hanno curato gli interessi del Paese, né la sua economica. Con gli stipendi che ci sono in Tunisia – anche quelli medio alti – non si riesce a vivere. Il costo della vita è salito alle stelle: per fare alcuni esempi, le banane e le mele costano più qui che in Italia. È una situazione senza precedenti. Il parlamento che avrebbe dovuto essere forte invece è diventato un circo. Le opposizioni che si sono succedute hanno sempre criticato senza offrire alternative concrete, così il governo di Saied ne ha approfittato per fare sempre più ricorso a decreti presidenziali.

E a subire più danni in questa situazione sono le classi sociali più deboli, tra cui i giovani.
I giovani già prima della transizione democratica erano la vittima principale di un Paese che non dà più speranze e prospettive sul futuro. L’università tunisina ha sempre sfornato diplomati e laureati, ma poi non c’è alcuna possibilità di lavoro. Tra i problemi di bilancio del governo e le richieste della Banca mondiale e del Fondo Monetario Internazionale, le assunzioni sono state bloccate. Non abbiamo mai avuto il sostegno effettivo di queste istituzioni perché dobbiamo fare molte riforme e ridurre drasticamente la spesa pubblica a partire dagli stipendi del personale.

Se dovesse fare un documentario sulla crisi tunisina, dipingerebbe un paese con speranze o allo sbando?
Credo che ci troviamo in un momento complesso, appena prima dell’esplosione del Paese. La situazione economica e politica non può essere più tollerata. Non si riesce più a tenere lo stesso tenore di vita di prima. Se il presidente Saied non inizia un dialogo con tutte le altre realtà, la situazione è destinata a esplodere. Serve innescare un dialogo tra le parti sociali, tra i sindacati e il governo. Bisogna coinvolgere società civile e partiti, perché l’esplosione del Paese sarebbe disastrosa. Se crolliamo noi crolla tutto il rapporto con la riva Nord del mediterraneo, senza possibilità di controllo dell’immigrazione.