“Ci sono bambini che non hanno mai conosciuto nella loro vita un solo giorno di pace e che in questo momento si trovano ad affrontare questa nuova grandissima emergenza”. Lo sguardo di Asmae Dachan, giornalista e scrittrice italo-siriana, si posa sulla sua terra natale e ci racconta l’altra faccia del terremoto che il 6 febbraio ha devastato le regioni al confine tra Turchia e Siria. Sono sufficienti pochi chilometri perché gli effetti del sisma assumano significati diversi: se la Turchia “ha una infrastruttura funzionante a livello di soccorsi, protezione civile, Croce Rossa e aiuti internazionali, la situazione in Siria è ben diversa”.

Il Paese viene da quasi 12 anni di guerra civile che ha stremato la popolazione. Adesso il sisma ha distrutto anche quelle poche certezze rimaste. Che impatto ha avuto sui siriani?

«La situazione che stanno descrivendo le persone è assolutamente drammatica e forse noi, da questa parte del mare, non riusciamo a capirla. Le persone, che sono sopravvissute ad anni di bombardamenti feroci, dicono di non aver mai avuto tanta paura quanta ne hanno avuta in questi giorni e che probabilmente è la concentrazione di questa violenza a rendere le loro vite particolarmente vulnerabili in questo momento. Anche coloro che hanno ancora la casa in piedi sono state costrette comunque a evacuare finché non verranno effettuate le verifiche».

«Le persone che sono sopravvissute ad anni di bombardamenti feroci, dicono di non aver mai avuto tanta paura quanta ne hanno avuta in questi giorni», racconta la giornalista Asmae Dachan

Quanto contano le conseguenze della guerra sulla reazione del Paese all’emergenza terremoto?

«Ci sono almeno tre Stati in uno, sebbene ufficialmente non lo siano. Abbiamo la cosiddetta Siria che va dalla costa ai confini iracheni, che attualmente è tornata sotto il controllo del regime di Bashar al-Assad. Abbiamo la Siria del Nord-Est che è sotto il controllo delle autonomie curde, protette dalla coalizione internazionale guidata dagli Stati Uniti. Infine abbiamo la Siria del Nord-Ovest, un fazzoletto di terra dove però sono concentrate circa 4,6 milioni di persone, ciò che resta delle opposizioni siriane che sono però sotto il controllo turco. Purtroppo all’interno di questo territorio ci sono ancora gruppi di miliziani estremisti che in qualche modo tengono in ostaggio la popolazione ed è proprio questo che complica interventi e aiuti».

Alla luce di queste profonde differenze, come si stanno organizzando i soccorsi?

«Nelle aree del Nord-Ovest, le squadre degli Elmetti Bianchi e della protezione civile non riescono a far fronte da sole all’emergenza, in più il 45 per cento degli ospedali siriani è stato distrutto durante i bombardamenti. Il quadro è molto preoccupante: le testimonianze dei medici che sto contattando dicono che stanno assistendo alla morte di persone che sarebbe stato possibile salvare se ci fossero stati i mezzi e gli strumenti. Molti dei terremotati della Turchia sono proprio profughi siriani che in quella terra avevano in qualche modo ricominciato a vivere, avevano trovato una casa, avevano iscritto i propri figli a scuola. Ora si trovano di nuovo all’addiaccio con una paura che raccontano di non aver mai provato».

Potremmo quindi assistere a una nuova ondata di profughi?

«In 12 anni la Turchia ha costruito un muro di frontiera lunghissimo proprio dopo aver accolto quattro milioni di profughi siriani. La maggior parte è rimasta nelle zone frontaliere, una buona parte si è divisa nelle altre città turche. L’uscita dalla Siria è diventata praticamente impossibile, quindi molte delle persone tentano la via del mare e lo abbiamo visto con risultati drammatici. Ora bisognerà capire se ci sarà una fuga dalla Turchia e se, in qualche modo, le frontiere sbarrate degli altri Paesi apriranno all’accoglienza di questi profughi, oppure se il fenomeno sarà gestito esclusivamente con una soluzione interna. Prima del terremoto molti profughi vivevano già in condizioni abbastanza precarie. Ora le testimonianze ci stanno raccontando di serre, come quelle usate per la coltivazione di ortaggi e frutta, costruite in fretta e furia per cercare di dare un minimo di riparo in questi giorni di grande freddo».

I rapporti tra Damasco e Ankara non si possono definire amichevoli. C’è la possibilità che, per affrontare un’emergenza così grande, ci possa essere un calo della tensione?

«Escludo un riavvicinamento causato dalle conseguenze del sisma perché dalle due parti, nelle ore successive al sisma, sono emersi solo dialoghi politici, non dialoghi rivolti agli interessi delle popolazioni civili e dei più fragili. Un riavvicinamento era stato paventato nei mesi scorsi: Erdogan aveva detto che nulla in politica dura per sempre. Il problema è che la politica è una questione complicata e la gestione degli aiuti umanitari è sempre stata politicizzata di fronte a tragedie di queste proporzioni. Sarebbe davvero bello che prevalesse uno spirito umanitario e non un calcolo di interesse di natura politica o legata a un’affermazione di potere».

Il monito di Dachan: «Vorrei che il pensiero dei bambini, degli anziani, dei civili in genere, muovesse le coscienze anche di chi fa politica e per una volta si lasciasse da parte il calcolo geopolitico e si mettessero al centro i diritti umani»

Tra i più colpiti, però, ci sono i bambini che, oltre al dramma della guerra, ora sperimentano sulla propria pelle anche il terremoto. A cosa vanno incontro?

«Ci sono famiglie con bambini allettati a causa di mutilazioni riportate in guerra oppure nati con gravi disabilità. I genitori sono stati costretti a prenderli dai loro letti, vestiti semplicemente con i loro pigiamini, e a portarli in mezzo alla strada. I medici ci insegnano che la loro salute è cagionevole e quindi sono particolarmente esposti a rischi. In più, i bambini che sono nati o che hanno sviluppato delle patologie di tipo psichiatrico, si trovano ad affrontare una crisi che i genitori non sanno gestire perché anch’essi hanno perso serenità e autocontrollo davanti a un’emergenza davvero troppo grande. Vorrei che il pensiero dei bambini, degli anziani, dei civili in genere, muovesse le coscienze anche di chi fa politica e per una volta si lasciasse da parte il calcolo geopolitico e si mettessero al centro i diritti umani».