«Sono stato a Tripoli 20 giorni e sono arrivato alla linea del fronte con grande difficoltà: questo perché nessuno dei due belligeranti vuole far vedere che a combattere sono forze esterne alla Libia, e che i libici non combattono più in prima linea».  Così Amedeo Ricucci, reporter di guerra della Rai di grandissima esperienza, racconta di quanto sia cambiato il conflitto libico negli ultimi anni, che da rivoluzione popolare è diventato una vera e propria «guerra per procura».

Cosa distingue il conflitto in Libia dagli altri che ha avuto l’occasione di raccontare nella sua carriera?

«Oggi non si può neanche più parlare di un conflitto libico.La Libia ha vissuto due distinte guerre civili: la prima è la rivoluzione che ha spodestato Gheddafi, che è partita nel febbraio del 2011 ma si è trascinata fino al 2014. In quello stesso anno, con la cosiddetta “Operazione dignità” del generale Khalifa Haftar, è iniziato un secondo conflitto che si sta dispiegando con tutta la sua drammaticità adesso».

Come sono composti i due schieramenti?

«A Tripoli ci sono almeno 3mila combattenti siriani ingaggiati dal premier turco Ergodan che appoggiano il governo dell’accordo nazionale (Fayez al-Sarraj) e, sempre a Tripoli, ci sono migliaia di mercenari russi. La carne da macello, che combatte in prima linea, è invece composta da mercenari reclutati in Sudan e in Chad.I due schieramenti rappresentano anche le due anime rivali del mondo islamico sunnita: da una parte chi difende la Fratellanza Musulmana (Turchia e Qatar) offre il proprio appoggio al presidente al-Sarraj, dall’altra chi vi si oppone (Egitto, Emirati Arabi e Arabia Saudita) supporta il generale Haftar. A subire le conseguenze di questa rivalità è la popolazione libica».

Ormai sono passati 9 anni dal 17 febbraio 2011, inizio della prima guerra civile in Libia. Cosa chiedono ora i libici alla classe politica e alla comunità internazionale?

«Cominciamo mettendo in chiaro un fatto molto importante: chiunque è stato in Libia sa che nessun libico rimpiange Gheddafi. Non è stato il suo spodestamento l’origine dei mali, ma la gestione poco lungimirante da parte delle potenze occidentali. I bombardamenti della Nato sono stati decisivi a spodestare il dittatore nordafricano, ma dal giorno dopo la sua deposizione le potenze occidentali hanno abbandonato i libici, che ora assistono passivamente allo scontro, non avendo più fiducia nell’attuale classe politica che ha preso il potere per vie tribali».

«Chiunque è stato in Libia sa che nessun libico rimpiange Gheddafi. Non è stato il suo spodestamento l’origine dei mali, ma la gestione poco lungimirante da parte delle potenze occidentali».

 Quanto potere ha Al-Sarraj e quanto le milizie locali che lo supportano?

«Al-Sarraj è salito al potere dopo che era stato tentato un lungo percorso di riconciliazione, ma già il suo insediamento nel 2016 avrebbe dovuto farci riflettere, perché fece fatica addirittura a entrare a Tripoli a causa dell’ostilità delle milizie tripoline. Dal 2014 in poi la città è stata oggetto delle mire dei miliziani locali che, in assenza di un ceto politico adeguato, si sono spartiti il potere. Al-Sarraj è completamente schiavo di queste milizie, che sono state integrate nei vari ministeri».

In che condizioni, invece, vivono ora i migranti in Libia?

«Prima del 4 aprile era difficile incontrare i migranti per le strade di Tripoli, Misurata, Zintan o lungo la costa. Se ne stavano nascosti, giravano il meno possibile e provavano con vari sotterfugi ad imbarcarsi per l’Europa. Ora la situazione è diversa: si vedono centinaia di migranti per strada, molti dei quali svolgono attività al soldo dei libici, con un fenomeno di caporalato simile a quanto avviene in Italia. Secondo l’Oim, l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni, al momento sono un migliaio i migranti nei centri di detenzione, contro i quasi 7mila che erano prima dello scorso 4 aprile. I migranti, però, pagano comunque il prezzo del conflitto, visto che alcuni vengono assoldati per andare al fronte ed altri non possono essere rimpatriati attraverso i programmi di rimpatrio volontario dell’Oim perché le strade non sono sicure e quindi non si possono organizzare i convogli».