Non bisogna escludere e demonizzare l’Islam tout court per risolvere i problemi di molti Paesi medio-orientali. Bisogna spingerlo verso la modernità.

È questo, in sintesi, il pensiero di Mustafa Akyol, giornalista, scrittore e opinionista per il New York Times, ospite a Milano per un incontro della Fondazione Oasis. Akyol è un credente musulmano che vive e lavora a Istanbul, dove scrive per i più importanti quotidiani turchi, spesso in contrasto con il governo.

Nella sua carriera ha criticato apertamente sia gli estremismi del mondo islamico che il secolarismo nazionalista turco. Secondo Akyol, la religione non è un freno alla democrazia e chi cerca di escluderla dal dialogo per una società migliore, sbaglia. Come sicuramente sbaglia chi la esalta come unica via per la giustizia e la verità, arrivando al fanatismo fino a giustificare il terrorismo. Non a caso il suo libro più famoso è intitolato “Islam without extremes”.

In un recente articolo pubblicato sul New York Times, Akyol spiega il suo punto di vista al pubblico occidentale utilizzando un personaggio fondamentale per la storia del pensiero moderno: John Locke. Come l’ideatore del Liberalismo mise le basi per trasformare la società occidentale, rendendo libera ed esclusivamente privata la professione di fede, così nel mondo musulmano occorrerebbe una chiara separazione tra Stato, giustizia, vita civile e credo personale. Solo così, secondo il giornalista turco, il mondo islamico potrà trovare la sua strada verso la modernità e la democrazia. 

In un Ted Talk del 2011 lei sosteneva che il mondo musulmano ha le potenzialità in se stesso di diventare moderno. Chi impedisce, oggi, questo processo?

Prima di tutti, i musulmani fanatici. Stanno intimidendo qualsiasi pensatore che cerchi un nuovo approccio o una nuova interpretazione del Corano, condannando e minacciando chiunque tenti una via liberale. Ma è anche l’Occidente che, più o meno intenzionalmente, blocca le riforme nel mondo musulmano. Per esempio, supportando dittatori amici, che in patria sopprimono la democrazia. O supportando un golpe militare, come nel caso dell’Egitto. O intraprendendo “avventure” militari nella regione, nel tentativo di combattere il terrorismo. In quei casi il risultato è stato produrre molti più fanatismi perché gli interventi stranieri hanno aumentato la percezione negli islamici di essere sotto attacco. Sicuramente l’Occidente vuole vedere un mondo musulmano più liberale, ma sono proprio le azioni che sta intraprendendo per arrivare a questo risultato ad allontanarlo sempre di più da soluzioni politiche alternative alle attuali.

Non crede che in questo ci sia anche la responsabilità di alcuni gruppi che in Medio Oriente utilizzano la religione come pretesto per perseguire fini politici?

La religione non è sempre un pretesto, la popolazione crede nella rivelazione coranica con genuinità. Certamente la religione è anche un buono strumento per mobilitare le masse per scopi politici, e spesso si fonde bene con altre pulsioni di massa. L’idea dello jihad, in alcuni Stati, si unisce all’idea laica di resistenza all’invasore. E quando dici di combattere per Dio e per il Paese, la lotta per il Paese diventa ancora più legittima e trascini le masse più facilmente. Dovremmo opporci a questi movimenti jihadisti per il loro estremismo religioso, ma non dobbiamo mai dimenticare il contesto politico nel quale queste ideologie nascono e si sviluppano. Non pensiate che in un Paese musulmano pacifico qualcuno una mattina si svegli, apra il Corano e scelga la via dello jihad. A muoverlo è la percezione concreta che la sua comunità sia sotto attacco, e che il singolo sia minacciato. Questa percezione è un problema politico.

Oggi il fondamentalismo islamico colpisce soprattutto i musulmani. Perché questa verità fatica a passare nelle società occidentali?

Noi stiamo vivendo la nostra era buia in Iraq e Siria, dove le sette diventano una ragione per uccidere l’altro. Il fatto è che tutti percepiscono la realtà dal proprio punto di vista. Quando parlo a un pubblico occidentale mi sento dire che si percepisce un attacco dal mondo musulmano attraverso lo jihad. Quando vai in Turchia e chiedi alla gente cosa pensa delle relazioni con l’Occidente, ti dirà che l’Occidente sta attaccando il mondo islamico da secoli, attraverso le crociate, attraverso il colonialismo, attraverso Israele. Ti farà una lista lunghissima. La realtà è che c’è una forte tensione, dove entrambi gli opposti si considerano le vittime. Solo quando vedi il quadro generale capisci la realtà e solo allora puoi offrire una soluzione.

C’è anche una responsabilità dei media in questa percezione distorta della realtà?

C’è una grave responsabilità da parte dei media. I media portano all’arco solo gli elementi più estremi della rappresentazione dell’“altro”. Per i media occidentali, fanno notizia solo i musulmani che dicono o fanno le cose più folli. E viceversa, lo stesso vale per i media islamici. Si concentrano su commentatori islamofobi e sulle idee più becere dell’Occidente, ma non parlano del cristiano rispettoso che effettivamente cerca e vuole la pace. Ogni parte chiama in causa i lati peggiori del suo ipotetico opponente. I media cercano il sensazionalismo e questo è molto pericoloso.

L’immagine dell’Islam è diversa in Usa rispetto all’Europa?

Negli Stati Uniti tutto viene considerato da un punto di vista politico e militare. C’è spesso un punto di vista militaristico quando si tratta di risolvere problemi, il che non aiuta, come abbiamo visto con la guerra in Iraq. Devo dire che simpatizzo di più con l’approccio di Obama che con quello del suo predecessore. In Europa, invece, il problema è che si guarda ai fatti con una visione troppo secolarista, senza prendere affatto in considerazione la religione. Neanche questo modo di vedere le cose, secondo me, è ottimale. Per avere un dialogo, bisogna innanzitutto capire il punto di vista altrui e non considerarlo errato a priori. È per questo che ci sono più possibilità che un fedele musulmano comunichi e vada d’accordo con un fedele cattolico, piuttosto che con un ateo liberale.

I media occidentali stanno facendo il gioco dello Stato Islamico?

In un certo senso sì, mostrando le loro azioni senza identificarli per quello che sono: un gruppo marginale nell’universo musulmano. Quando dici “questo è lo Stato Islamico”, la gente può pensare che quello è l’Islam in forma politica. Sanno che i media assecondano la loro propaganda, e così si producono in azioni scioccanti per diventare virali. Il nuovo terrorismo usa gli strumenti del nemico a suo vantaggio.

Perché la Turchia – il suo Paese – che è stata a lungo un esempio di modernismo islamico, sta prendendo una deriva autoritaria?

Ho sempre preso la Turchia come esempio di unione possibile tra Islam e democrazia. Sfortunatamente la Turchia non sta brillando in merito, oggi. Ma questo è un problema politico piuttosto che religioso. Il primo ministro Erdogan sta diventando autoritario, ed è un fatto. Ma, attenzione, questa non è un’attitudine che viene dalla sharia o dalla legge islamica, è solo una dinamica politica. In Turchia ci misuriamo con un Putin, non con un Khomeini. Ci confrontiamo con un leader politico che non vuole essere criticato e che vuole sempre più potere.

Tuttavia, Erdogan ha provato, dopo le primavere arabe, a trasformare la Turchia in un punto di riferimento per gli Stati della regione. Forse non in un riferimento religioso, ma in un riferimento per l’Islam politico. Questo non compromette il percorso che dovrebbe condurre a un Islam liberale?

Può comprometterlo e lo sta già compromettendo. Erdogan e il suo partito (Akp) non si sono riformati nel modo in cui speravamo, prendendo in molte occasioni una deriva di tipo islamista. Non sono sicuramente felice della piega che ha preso la Turchia, ma abbiamo una storia lunga: forse è solo il collo di bottiglia da cui dobbiamo passare per entrare in un futuro migliore.