Davanti a casa, facilmente visibile dalla finestra di camera mia, c’è il bar Sibilla. Non si tratta di un buon bar e non è sicuramente classificabile tra i migliori della zona. Ma ai miei occhi rappresenta l’essenza del quartiere di Vanchiglia. Durante la giornata, da quel bar passano tutte le persone che popolano il quartiere. Si vedono i genitori che portano i figli all’asilo nido o alla scuola d’infanzia, situate poco più avanti su via Balbo, sul tratto di strada pedonale. Si vedono lavoratori e commercianti che la mattina fanno tappa per un caffè. Si vedono anche gli studenti liceali del Gioberti, che spesso si fermano per la pausa pranzo, con gli zaini appesantiti dai dizionari di latino e greco. Ci sono anche gli universitari che frequentano il Campus Luigi Einaudi, situato oltre corso Regina, a cinque minuti di distanza a piedi: loro amano in particolar modo trascorrere le serate nei locali circostanti, andando a formare la famigerata movida che il venerdì e il sabato sera mette a ferro e fuoco tutta la zona. Così succede almeno secondo la percezione dei residenti, che da anni lamentano il chiasso eccessivo.

Vanchiglia è un quartiere vivo, ricco di attività e profondamente caratterizzato dalle sue contraddizioni. Pur essendo situato a ridosso del centro città, si distingue nettamente per l’atmosfera che vi si respira. Qui non si trovano grandi negozi, attività commerciali di rilievo o istituzioni culturali storiche capaci di attrarre centinaia di turisti ogni giorno. Vi si trovano invece un mercato rionale ‒ ormai l’ombra di quello che ricordano gli abitanti più anziani ‒, un parchetto con i giochi, diverse scuole e una costellazione di attività locali, sufficienti a fornire a una persona tutto quello di cui necessità per vivere senza uscire dal perimetro triangolare del quartiere. Alcuni arrivano pure a descrivere Vanchiglia come “una piccola realtà di paese”, come se il resto della città non esistesse.

Il tratto pedonale di via Balbo incarna l’essenza delle contraddizioni vissute da chi il quartiere lo abita. Durante il giorno, questa strada si trasforma in un vivace parco giochi all’aperto, dove i bambini giocano sotto l’occhio vigile dei loro genitori. L’area è abbellita da alberi, tavoli e panchine colorate, creando un ambiente accogliente e sereno. Quest’atmosfera idilliaca è contraddistinta dalla presenza delle imponenti figure dipinte sui muri, tra cui Dante di Nanni, Orso Tekoser, Carla Capponi, Leila Khaled e Vittorio Arrigoni, simboli di lotta e resistenza. Queste figure murali sono rivendicate dal centro sociale Askatasuna, situato accanto all’asilo nido. L’Askatasuna è uno dei centri sociali più attivi e influenti del territorio, ma anche uno dei più controversi, spesso al centro di dibattiti e tensioni. La sua presenza è una testimonianza delle profonde radici che ha sviluppato nel quartiere, ma anche delle divisioni che può generare tra i residenti. Poi però, quella stessa strada di sera cambia volto ancora una volta, e diventa “l’area fumatori” della vita notturna torinese. Il contrasto tra il giorno e la notte in via Balbo è emblematico delle diverse anime di Vanchiglia, che coesistono nello stesso spazio ma emergono in momenti e contesti differenti.

C’è da dire che Vanchiglia da sempre è viva, anche se in modi profondamente diversi. Se adesso, da quando è stata aperta la nuova sede universitaria nel 2012, la rendono viva i giovani, ieri invece erano i lavoratori e gli immigrati. Lo ricordano con piacere i residenti più anziani, che ancora hanno l’abitudine a chiamare questa casa “borgo”. C’è chi sessant’anni fa si è trasferito dal meridione, e tra le temperature gelide del nord Italia ha stabilito la propria vita in questa zona. Se gli si chiede com’era il posto, si ricordano per filo e per segno ogni singolo negozio di quel luogo “paradisiaco”: «Al posto del bar Barricata c’era una tintoria, mentre la panetteria all’angolo della piazza c’è sempre stata. Accanto, dove c’è l’erboristeria, c’era un bar, mentre al posto dell’agenzia immobiliare c’era una macelleria. Al posto di Bere in tipografia, il bar più frequentato dalla movida, c’era una panetteria e prima ancora una macelleria». Contro ogni pronostico, anche le lamentele nei confronti del rumore erano già presenti in passato: «La gente già si lamentava, perché c’era il mercato che faceva rumore fino a tarda sera» ricorda, per esempio, la barista del locale Santa Piola, che si è trasferita quando era bambina nel quartiere circa trent’anni fa.

Nel lamentarsi del rumore, non c’è necessariamente risentimento nei confronti dei giovani, anzi. Molti riescono a comprendere le loro necessità di svago e di intrattenimento: «Il quartiere oggi è più vivo, però se uno la notte vuole riposare non riesce tanto bene». Anche i residenti più agguerriti, quelli che stanno cercando attivamente una soluzione al problema, si rendono conto che i giovani hanno bisogno a loro volta dei loro spazi. Ho parlato in particolar modo con Mirella Berardino, la rappresentante “Riprendiamoci Vanchiglia”: «Io penso che i ragazzi si debbano divertire giustamente, non voglio sembrare bigotta. Tutto però dovrebbe passare attraverso il rispetto nei confronti degli altri. È questo il punto fondamentale».

Mirella non vuole svelare la sua età, però fa presente che è arrivata in Vanchiglia quando era molto giovane 35 anni fa, seguendo il padre che lavorava nell’arma dei Carabinieri. La sua carriera ha però preso una direzione completamente diversa: oggi è drammaturga, regista e anche attrice in ambito teatrale, e insegna teatro all’Università Popolare di Torino. Ciò che mi colpisce di lei è come la creatività del suo lavoro emerga anche durante la sua intervista, soprattutto nel momento in cui descrive per punti i pro e i contro del quartiere. Con il gruppo di cui è fondatrice, ha cercato nel corso degli anni di trovare una soluzione al baccano eccessivo che si sente verso la fine della settimana. Sono partiti con dei semplici volantinaggi, per poi fare raccolte firme da presentare al Comune. Osservando però che i molteplici incontri con la giunta comunale non portavano a nulla a causa ‒ a detta loro ‒ dell’insofferenza e del disinteresse, insieme hanno deciso di denunciare il Comune e chiedere un risarcimento danni, sulla falsa riga di come era già stato fatto per il quartiere San Salvario. Il processo oggi è ancora in corso.

Le altre persone intervistate fanno parte, da un punto di vista generazionale, dell’altro grande schieramento. Anche loro, a modo proprio, apprezzano il divertimento e l’aria di festa che si respira di sera, e anche loro vogliono esserne partecipi. Il primo si chiama Alberto, ed è un mio amico dei tempi del liceo. Abita accanto a largo Montebello, una piccola piazza circolare con in mezzo giochi per bambini quali altalene e dondoli. Per quanto abbia origini campane, è nato e cresciuto con la famiglia in Vanchiglia: la madre è casalinga, mentre il padre gestisce un negozio di vestiti in un’altra zona. Incontrarci è stata l’occasione per vederci dopo molto tempo, ma in ogni caso era felice all’idea di parlare di Vanchiglia. In fondo, è anche il suo quartiere: «Per me la spina dorsale della zona è via Santa Giulia, perché collega casa mia alla chiesa e ci si trovano tutte le principali attività della quotidianità. Devo dire che da piccolo avevo la percezione però che il quartiere fosse più vivo, almeno da un punto di vista commerciale. Oggi non è più così».

Si può dire che Alberto, in un certo senso, rappresenti le due facce della medaglia. Da un lato apprezza che nell’ultimo decennio ci sia stato un moltiplicarsi dei bar e dei locali che fanno da mangiare e da bere, perché a lui piace far serata con gli amici. Dall’altro però percepisce alcuni effetti collaterali problematici: «Ultimamente non si trova parcheggio. Può sembrare un aspetto banale ma non lo è: se ogni sera torni a casa e non riesci a trovare parcheggio perché è sempre più pieno di dehors e di altri posti in cui non si può lasciare la macchina non è proprio il massimo». Trovo strano che questo commento venga da lui, che ha un box auto privato: questo fastidio però ho potuto verificarlo in prima persona, e perciò non mi sento neanche di dissentire.

L’altro ragazzo intervistato si chiama Ugo, ed è un amico di famiglia. Ha lavorato per tanti anni al Rough, l’ennesimo cocktail bar che dagli eserciti universitari ha tirato su una fortuna. Quello di Vanchiglia costituisce di fatto il suo ambiente ideale: diversità tra i locali, una mentalità più aperta e tante persone diverse da conoscere. In sei anni di permanenza, di cui cinque passati a lavorare nel bar, ha potuto notare tutti i principali cambiamenti che hanno caratterizzato la zona. Per esempio, la sera c’è stato un aumento dei controlli da parte della polizia dopo le prime ondate di coronavirus, e simultaneamente un aumento di fenomeni di microcriminalità, come atti di vandalismo. Per fronteggiare questo problema, anche i locali si sono mossi, ingaggiando tramite spesa comune buttafuori e alcuni agenti che circolano per la piazza la sera. Ci sono però forti dubbi sull’aumento dei controlli come soluzione definitiva: «Non so quanto la movida in Vanchiglia possa essere modificata. La quantità di persone è ingente e socialmente parlando è difficile controllarla e riorganizzarla in spazi appositi. Allo stesso tempo, l’uso delle forze dell’ordine, secondo me, può costituire una soluzione nel breve periodo ma non basta». Ha parlato poi anche di episodi dove alcuni diverbi che si sono inaspriti a causa dell’intervento della sicurezza, anche se nella sua esperienza diretta non è mai andato oltre al confronto verbale.

Negli anni si è verificato inoltre un cambiamento dei flussi delle persone: prima i liceali avevano l’abitudine di passare le serate da un’altra parte, nel già citato quartiere di San Salvario. Ora però sembra, almeno agli occhi di Ugo, che si stiano piano piano spostando anche loro verso piazza Santa Giulia e dintorni.

Queste trasformazioni non sono per forza negative, però Ugo mette in guardia: «L’evoluzione degli ultimi anni non ha inciso in maniera radicale sul mio modo di vivere il quartiere, però ci sono determinati ambienti che sono cambiati e che bisogna stare attenti a frequentare». Uno di questi è sempre il tratto pedonale di via Balbo: nella sua planimetria mentale del quartiere, Ugo pone lì le “colonne d’Ercole”: «Le persone che stanno lì di solito hanno i bottiglioni, mentre spostarsi verso la piazza vincola al consumo dei drink nei bicchieri. Nel giro di centro metri, cambia la clientela e il tipo di movida. Lì di solito è più facile che mi senta in pericolo».

Anche quest’ultima considerazione la trovo un po’ singolare da parte sua: prima che lo conoscessi, Ugo era entrato a far parte dell’Askatasuna e aveva frequentato quell’edificio. Si era infatti unito al Collettivo Universitario Autonomo, ovvero il raggruppamento degli studenti universitari legati al centro sociale. Ha fatto anche un pochino di militanza politica al suo interno, creando un bagaglio culturale che ancora oggi si porta dietro, anche se in misura nettamente ridotta.

«Non dico il mio nome, di anni ne ho ventidue

I miei numeri preferiti l’uno, il tre poi l’uno e il due

Mi trovi in corso regina, chiedi del quarantasette

Con altri come me allergici alle camionette»

 

L’edificio situato al numero 47 di corso Regina Margherita, riconoscibilissimo per la facciata rosso acceso che lo contraddistingue rispetto ai palazzi circostanti, è stato occupato da alcuni militanti dell’area politica Autonomia Contropotere ‒ erede della storica e famigerata Autonomia Operaia di Toni Negri ‒ nel 1996. Da allora lo stabilimento è stato rinominato CSOA (ovvero “centro sociale autogestito”) Askatasuna. Il nome deriva dalla lingua basca e si traduce con “libertà”: era stato usato, per esempio, anche da Euskadi Ta Askatasuna, un’organizzazione armata terroristica basco-nazionalista e indipendentista in attività dalla metà degli anni ’60 fino al 2011.

Fin dalla sua nascita, il centro sociale si caratterizzò per la volontà di instaurare un legame profondo con il quartiere di Vanchiglia che lo accoglieva, a differenza delle altre realtà cittadine. Le iniziative organizzate dai militanti spaziavano dai servizi per i più bisognosi agli eventi culturali: l’edificio ospitava infatti uno sportello per persone in difficoltà abitativa, un laboratorio artistico, una biblioteca, una camera oscura fotografica e una sala di registrazione. Contemporaneamente, in città, il nome “Askatasuna” diventò ben presto sinonimo caos, disordine pubblico e vicende giudiziarie. Questo è dovuto alla grande capacità di mobilitare masse nelle proteste che spesso sfociano in episodi di scontri e di violenza.

«Una sera come tante tornavo dal Barricata

Da solo ed ubriaco alla fine della serata

Mi si avvicina un tizio, mi dice amico mio

Avresti mica un accendino perché ho smarrito il mio

Poi dice forse sbaglio ma sembri proprio tu

Quello che tirava sassi, io ero quello vestito blu

Era quella la più letale di tutte le sigarette

Quella che mi avrebbe spedito di lì a poco alle Vallette»

 

Il progetto dell’artista Errico Canta Male pubblicato nel 2016 si chiama “Quartieri, Vol. 1”, e in sette canzoni attraversa alcuni dei quartieri più significativi di Torino, raccontandone la storia. Il brano dedicato a Vanchiglia si concentra su una vicenda non ben definita, in cui un giovane ragazzo di ventidue anni dell’Askatasuna è vittima di una retata della polizia e viene portato al carcere delle Vallette.

Si tratta di un motivo ricorrente nella storia di quest’organizzazione. Negli ultimi 25 anni si sono verificati disordini, scontri, feriti, sequestri e arresti in diverse date: 1° maggio 1999, 17 luglio 2001 (pochi giorni prima del G8 di Genova), 29 marzo 2003, ma anche il 1° maggio 2023 sono solo alcuni esempi in cui il centro sociale è finito sulle pagine dei giornali. Degno di nota è anche l’inizio del 2000, periodo nel quale un membro storico del centro venne condannato a più di sei anni con l’accusa di aver preso parte ad alcuni attentati contro l’Alta Velocità in Valsusa. Questo evento scatenò un corteo per le vie del capoluogo: fu la prima di una lunga serie di manifestazioni a Torino e in valle ‒ l’ultima l’8 dicembre 2023 ‒ dedicate al contrasto alla TAV.

«Perché non c’è giustizia se non c’è la libertà

Libertà che ci prendiamo se nessuno ce la dà

Noi non siamo canarini, noi in gabbia non cantiamo

Voi di giorno mettete le reti e noi la notte le tagliamo

E siamo tutti baschi, siamo tutti portoghesi

E i fasci nel quartiere li troverete appesi

Stanotte come ogni notte vado a trovare la mia famiglia

Anche stanotte sono in giro i ragazzi di Vanchiglia»

 

Sono ormai più di vent’anni che il dibattito pubblico sull’Askatasuna si fa sempre più infuocato e polarizzato. Lo scontro, non sempre incasellabile nelle solite etichette di “destra” e “sinistra”, è tra chi vorrebbe sgomberare e chiudere tutto immediatamente, e chi invece preferisce tenere in vita l’iniziativa in nome dei suoi enormi contributi alla comunità nel corso degli anni. Anche l’ultima scelta dell’amministrazione locale a guida Lo Russo ‒ Partito Democratico ‒ di rendere parte dell’edificio bene comune in cogestione con i cittadini ha suscitato non poche polemiche, con chi sostiene fermamente che la collaborazione con gli occupanti sia un atto di legittimazione nei confronti di chi ha attaccato polizia e carabinieri nei cantieri della Tav e nelle manifestazioni a Torino.

In sintesi, non mancano certo gli aspetti problematici in questo angolo di Vanchiglia. Le serate di paura a causa degli scontri tra manifestanti e forze dell’ordine nelle vicinanze di casa mia sono impresse nella mia memoria, così come le manifestazioni che, a causa del comportamento di alcuni militanti, degenerano troppo facilmente in disordini. Questi eventi, carichi di tensione e conflitto, hanno lasciato un segno indelebile su chi vive nel quartiere. Tuttavia, dopo trent’anni di attività, è impossibile parlare dell’Askatasuna senza riconoscere il profondo radicamento che ha sviluppato all’interno del territorio. Il centro non rappresenta solo un luogo di contestazione e protesta, ma anche un fulcro di vita comunitaria e culturale. Senza il loro contributo, molte delle iniziative che oggi animano Vanchiglia non esisterebbero. Eventi come conferenze, concerti, mostre e manifestazioni devono molto alla loro energia e alla loro organizzazione. Questi eventi non solo arricchiscono la vita culturale del quartiere, ma fungono anche da catalizzatori per la coesione sociale, creando momenti di incontro e di scambio tra i residenti. La cultura di Vanchiglia è anche la cultura dell’Askatasuna, e questo legame si estende anche oltre i confini del quartiere, influenzando l’intera città.

Il grande fermento dei giovani e degli studenti, le innumerevoli proteste e le piazze piene di migliaia di persone si realizzano tutti con il fondamentale apporto dei militanti di quel piccolo edificio sul tratto pedonale di via Balbo, per questo così attenzionato dalle forze dell’ordine. Che un angolo di mondo così piccolo abbia la potenza di fare la differenza in modo così dirompente è, in fondo, anche motivo di fascino e ammirazione.

Le cose da raccontare su Vanchiglia sono innumerevoli. Ci si potrebbe concentrare sull’estensione del mercato nei decenni passati, sulla centralità della chiesa di Santa Giulia. Se volessimo continuare a parlare di giovani e di movida, ci si potrebbe spostare poco più in là, appena oltre la Dora, dove si trova un’altra fondamentale piazza di vita notturna, comunemente chiamata “Le Panche” dal nome del bar che più di tutte la caratterizza.

Quello che finora ho fatto è stato rievocare i luoghi più importanti, e legare a quelli le mie sensazioni e i miei ricordi. Forse è il metodo più semplice per me per raccontare il centro dei miei ultimi dieci anni di vita. Da casa mia, per esempio, in meno di cinque minuti si accede al lungo Po. Scendendo la scalinata, la prima cosa che si nota è la vista alla propria destra: più avanti infatti si vedono chiaramente piazza Vittorio, il ponte sul fiume e la Gran Madre. È una vista bellissima, che sia di giorno o di notte, e nel corso degli anni credo di aver collezionato svariate foto tutte uguali tra di loro di quello scorcio. Quelle foto, come quel posto, racchiudono tutti i miei fatti più personali e tutti i miei pensieri più intimi. Tutti i momenti più complicati e più difficili hanno avuto come sfondo quel luogo, probabilmente anche per il senso di maggior privacy che mi dà rispetto ai parchi vicino casa. Sono andato lì dopo le litigate più incandescenti, dopo le rotture più inaspettate e anche dopo semplici momenti di pioggia che si portano dietro tanta malinconia. Sono andato lì anche in momenti più tranquilli e sereni, e in ogni caso lo sfondo non fa che migliorarne il ricordo. Forse la cosa che apprezzo così tanto di quel posto è la possibilità di vedere tanti volti sconosciuti di passaggio: mi aiuta anche a ridimensionare i miei problemi, perché ogni singola volta il senso di immensità che viene da quel panorama mi ricorda che esistono tante persone con altrettante storie, ognuna di queste unica.

Se Vanchiglia fosse una persona, probabilmente avrebbe un disturbo da personalità multipla. Questo commento ironico mi serve per spiegare cosa intendevo quando parlavo di quartiere vivo: un posto in cui le vite delle singole persone cambiano radicalmente da un caso all’altro. Il lavoratore che la notte vorrebbe dormire in santa pace probabilmente non incontrerà mai il liceale venuto a bere sotto casa sua, anche perché entrambi la propria vita in maniera differente. Però in quel momento si trovano entrambi molto vicini, e ad accomunarli è il luogo geografico in cui si trovano. Vanchiglia è il quartiere della militanza e delle manifestazioni, di un’onesta giornata di lavoro, delle conversazioni dei pensionati davanti alla chiesa, della fanciullezza di chi deve ancora scoprire tutto del mondo, del divertimento di chi vuole staccare la testa dagli impegni quotidiani, e così via. Tutte quelle persone a cui piace, di tanto in tanto, fermarsi e guardare la vita attorno a sé trovano quindi in Vanchiglia pane in abbondanza per i propri denti. In altre parole, le giornate si snodano tra le routine quotidiane di genitori, lavoratori, commercianti, studenti e residenti, che condividono gli stessi spazi e costruiscono, senza saperlo, una narrazione collettivo molto eterogenea e sfaccettata, nella quale chiunque può liberamente far risaltare l’aspetto che più apprezza.