Le notizie si trovano consumando la suola delle scarpe. Parola di Cristiano Tinazzi, giornalista free lance al seguito delle truppe di Gheddafi. Zaino leggero, due camicie e un paio di jeans. Tanta tecnologia però: pc, cuffia, fotocamera e, soprattutto, una torcia se manca la corrente. È questo il corredo ideale per il reporter di guerra: «Non è più immaginabile andare in Afghanistan con una Lettera 22», dice.

La tecnologia è di grande aiuto, tanto più quando si segue un conflitto senza essere stati nominati inviati o senza avere una testata alle spalle. «Il mestiere di freelance è poco stimato n Italia, a differenza degli Stati Uniti, dell’Inghilterra o di altri paesi europei. Anche se segui un fatto in esclusiva, le testate non ti rispondono alle mail, ti pagano poco, non puoi parlare con il direttore. Non ti concedono nemmeno una lettera per ottenere il visto. In questo modo non si prendono nessuna responsabilità».

Anche il trattamento economico cambia molto da Paese a Paese. «L’Associated Press paga 500 dollari per 20 minuti di girato; un qualsiasi canale internazionale 1000 euro per ogni minuto di immagini montate». In Italia queste tariffe ce le sogniamo: «La Rai mi paga 400 euro lorde per 10 minuti di servizio».

In questo conflitto libico non stiamo assistendo a troppi casi di “disinformazione di guerra”?

Direi di sì, nella misura in cui l’informazione si basa su fatti non verificati, cosa che sta succedendo molto spesso. Ricordate il primo discorso di Gheddafi alla popolazione libica? La traduzione corretta era “Se il popolo non mi ama, merito di morire”. Al-Arabya aveva tradotto così: “Se il popolo non mi ama, merita (il popolo, ndr) di morire”. Il traduttore di RaiNews24 ha lavorato correttamente ma tutta la stampa italiana ha riportato, con un vero e proprio effetto domino, la traduzione sbagliata del media arabo. Non si può manipolare così l’informazione, anche se Gheddafi non ci sta simpatico. Questi sono fatti gravi, e fanno alzare il livello di tensione sia interno sia esterno in Libia. La distorsione dell’informazione è la morte del giornalismo. Poi si sono verificate anche situazioni paradossali. Una mattina, dopo i bombardamenti su Tripoli, Bbc e Al-Jazeera lanciavano la notizia secondo cui la città di Sirte era in mano ai ribelli. Sono salito sul tetto dell’albergo dove mi trovavo per capire se c’erano sparatorie: non volava una mosca. Nonostante questo, molti colleghi sono voluti scappare per paura di finire nelle mani dei ribelli. Ecco, questo è il “cortocircuito” dell’informazione: chi sta sul campo è incapace di capire quale sia esattamente la situazione e si affida alla tv.

Che aria si respira nel quartier generale del rais a Tripoli?

C’è molta propaganda; spesso ci portano spesso nelle città liberate per dimostrarci che la situazione è sotto controllo. Ci portano anche nelle zone bombardate e all’interno degli ospedali, ma non riesci mai a distinguere i cadaveri dei civili dai cadaveri dei militari. Basta togliere a un militare il kalashnikov per farlo sembrare un civile, ma lì succede anche il contrario. In generale, le guardie di Gheddafi portano i giornalisti in tour in zone circoscritte: qui si possono richiedere interviste. All’inizio era molto facile eludere i controlli per raggiungere le zone di combattimento. Adesso ti controllano anche quando esci per comprare la schiuma da barba. Non siamo molto liberi nei movimenti: una delle ragioni potrebbe essere questa: l’organizzazione governativa che si occupa di mostrare ai giornalisti ciò che accade a Tripoli, ossia la Foreign Media Corporation è appena nata. Chi ne fa parte non ha molta esperienza con i media. Del resto, l’esercito non ha alcun interesse a farci vedere i teatri delle operazioni; qui la realtà del giornalista embedded non è diffusa come accade, invece, negli eserciti Nato, dove sei inserito in un’unità dell’esercito: accetti di rispettare le loro regole ma riesci a vedere il fronte. Per i militari libici il giornalista è solo un seccatore, e non hai alcuna garanzia di protezione.

Il regime di Gheddafi ha bloccato i mezzi di informazione o no?

Solo il primo venerdì di ribellione e nei giorni seguenti, quando c’è stato un vero e proprio caos, gli incendi e gli assalti ai palazzi, internet è stato oscurato, comprese tutte le linee di comunicazione. Bloccati anche i siti di Al-Jazeera e della Bbc.

Quali sono le tue fonti?

Il vescovo di Tripoli, monsignor Martinelli che vado a trovare in chiesa il venerdì. Martinelli dà una mano ai rifugiati dell’Africa sub-sahariana che non riescono a uscire dal Paese: quindi, grazie a lui, è possibile avere informazioni da fonti non governative. La seconda fonte sono le persone che conosci, quelle con cui hai stabilito un certo rapporto, anche se non bisogna mai fidarsi al 100%. La prima regola del giornalismo, del resto, è andare sul posto per vedere con i propri occhi. E poi essere sinceri, raccontare quello che si vede e come lo si vede: lo diceva Montanelli. Molti colleghi in Libia romanzano e tirano fuori storie mezze inventate ma raccontare solo ciò che hai visto è più veritiero che riportare fonti anonime o indirette. Se non hai la prova di un fatto, sarebbe bene usare il condizionale.

Nella stampa occidentale, i paragoni tra la rivoluzione libica e quella tunisina si sono sprecati. Ma è un confronto corretto?

La Libia era ed è un Paese totalmente diverso dagli altri Stati del Maghreb. In Tunisia, il popolo è sceso in strada per ottenere la libertà: è stata una rivolta bella e pacifica. Fatta da giovani che parlano le lingue e hanno una voglia di rivoluzione che deriva dalla loro cultura francofona. Un ruolo fondamentale è stato giocato da internet: per le strade di Tunisi, potevi leggere le scritte “Thank you Facebook”. In Libia, invece, il reddito pro capite è di 14-15 mila dollari l’anno, uno dei più alti dell’Africa e del Maghreb; la gente viaggia a bordo di auto berline perché lo Stato copre per metà il costo del mezzo, stessa cosa succede per l’affitto o la luce. La benzina costa pochissimo: 30 litri per 3 dinari, circa 2 euro. Internet non è diffuso e quindi non ha avuto alcun ruolo. Il livello di istruzione è basso: a Tripoli quasi nessuno legge i giornali o guarda film. Infine, la struttura sociale libica è tribale e l’unità dei clan si è rotta per ingerenze esterne. Nella sommossa libica sono mancate, insomma, sia la spinta economico-sociale, sia quella culturale. Se chiedi alla popolazione perché si combatte, nessuno ne ha una reale coscienza.

Che rapporto si è instaurato tra i giornalisti occidentali e la popolazione libica?

Amore-odio. La prima cosa che ci dicono è “Libia-Italia mya mya”, che equivale a dire “bene, bene”. E poi ci dicono: “Berlusconi down”. La propaganda televisiva del rais che ha lanciato la crociata contro gli occidentali non è a nostro favore. La popolazione ti fa intendere che non sei gradito. Mi è capitato di essere affiancato da un vecchio che mi mostrava il kalashnikov per provocarmi. Anche se io non entrerei mai in una casa dove una donna piange il fratello appena ucciso: comunque sia non sono un giornalista televisivo e mi posso permettere di non comportarmi come chi insegue le breaking news. Il rischio è sempre quello di offendere la sensibilità di una popolazione che la guerra la vive, la subisce e la fa.

di Giuliana Grimaldi, Giacomo Segantini