Djoman corruga la fronte, ma è sempre pacato quando parla. Mantiene le mani ferme. Ha un tono di voce da divulgatore: ha ben presente tutto il carico emotivo che si porta dietro ma riesce a mitigarlo, a scandire bene ogni parola e a focalizzarsi sui messaggi che vuole far passare. Tant’è che silenzia il telefono per non distogliere l’attenzione da quello che vuole dire. Un’eccezione per lui, che lavora come mediatore culturale, con il cellulare dalla suoneria sempre attivo. Lo chiami ad ogni ora e lui risponde, anche se è impegnato in altro. Non frena mai la sua loquacità, nemmeno in questo caso.

«Un uomo disperato, perché dovrebbe portare bambini, famiglie, donne incinte ad attraversare il mare con un barcone? Non è solo la disperazione che fa rischiare la vita alle persone in questa maniera: lo si fa quando non si hanno più soluzioni, quando nel proprio Paese non c’è più la possibilità di vivere. Bisogna cercare di capire il vero motivo che ha spinto la gente: attraversare il mare, così come partire dal proprio Paese, equivale ad affrontare la morte. La disperazione non è l’unico elemento da prendere in considerazione: oggi abbiamo la tendenza a non considerare la sofferenza degli altri. Dovremmo farlo senza essere buonisti e con zero pregiudizi. Dobbiamo andare sul campo e toccare il problema con mano. Non basta rilasciare dichiarazioni partendo dall’immaginario».

«Un uomo disperato, perché dovrebbe portare bambini, famiglie, donne incinte ad attraversare il mare con un barcone? Non è solo la disperazione che fa rischiare la vita alle persone in questa maniera: lo si fa quando non si hanno più soluzioni, quando nel proprio Paese non c’è più la possibilità di vivere». Il mediatore interculturale Djoman, guineano di nascita, descrive il motore della migrazione. .

Il 36enne ha la risposta per il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi. Dopo la strage di migranti di Cutro all’alba di domenica 26 febbraio, Piantedosi si era detto convinto che «la disperazione non giustifica viaggi che mettono in pericolo i figli».  Djoman spiega che la vita in Africa è così difficile da non rendere la disperazione il vero motore della partenza. Cita alcune difficoltà del continente, tra la povertà, la guerra, i conflitti legati alla religione e i problemi personali di chi sceglie di andarsene e bussare alle porte dell’Europa.

Prima di lasciare la Guinea Conakry, Djoman si divideva tra didattica e politica: si è laureato in Scienze sociologiche all’università “Julius Nyerere” di Kankan. Nell’attesa di diventare ufficialmente professore, in qualità di assistente aveva alcuni moduli del corso di Sociologia nelle università private. Inoltre, insegnava storia e geografia al liceo. Militava in un partito politico che, quando è salito al potere, non ha mantenuto le promesse fatte in campagna elettorale. Passare all’opposizione ha comportato minacce verso di sé e i suoi cari. Lo volevano ammazzare perché si temeva avrebbe divulgato i segreti del vecchio partito. È stato sequestrato. Uno dei suoi fratelli, invece, è stato fucilato: in ospedale, gli hanno dovuto amputare una gamba.

«Se fossi rimasto in Guinea, avrei potuto essere vittima di minacce, sequestri, torture e morte». Mentre ricorda cosa sarebbe potuto accadere, ha gli occhi rivolti ad un punto fisso, ma sbatte le palpebre e ogni tanto rivolge gli occhi verso il basso: sa visualizzare il futuro e analizzare il passato. La traversata del Sahara – di cui aveva appreso qualcosa dalle lezioni di geografia, ma non immaginava la meraviglia del deserto, pur avendo una paura indescrivibile di quello che gli sarebbe potuto succedere – e quella, piena di insidie, del Mediterraneo, lo hanno condotto nel Belpaese. Tuttavia, i suoi programmi erano diversi: voleva seguire un Master in Francia e si era fidato di alcuni suoi conoscenti che gli avevano promesso di raggiungerla in poche settimane tramite la capitale del Niger Niamey, il raggiungimento della Libia e la traversata da Tripoli su un mercantile di proprietà di una società di trasporti.

«Se fossi rimasto in Guinea, avrei potuto essere vittima di minacce, sequestri, torture e morte». Djoman sa visualizzare il futuro e sa ben analizzare il destino che gli sarebbe toccato in sorte nel suo Paese. Lo ha fatto anche nel suo libro «Mia Mia». Attraverso la vita.

Oltre le Alpi, Djoman non è mai andato, se non quando viveva già in Piemonte. Il suo viaggio per scappare dalla Guinea ha avuto un epilogo differente tra percosse, torture e detenzione. Ora che è sopravvissuto a tutto, può finalmente dire «mia mia», cioè «tutto bene». I migranti che arrivano in Libia imparano subito questa espressione. Quando viene chiesto loro come stanno, la ripetono per dire che è tutto ok.   «Mia Mia». Attraverso la vita è anche il titolo del libro che Djoman ha scritto per ripercorrere le tappe del viaggio che lo ha portato in Italia nel 2016.

È partito dalla Guinea nel mese di aprile: in circa quattro mesi ha percorso Mali, Burkina Faso, Niger e Libia. In terra libica, è stato prigioniero a Beni Walid, Sabrata e Sorman. Il gommone che lo ha portato in Italia il 21 agosto è stato sorvolato da un elicottero della Marina italiana e intercettato da una nave di salvataggio spagnola in acque internazionali: come racconta nel suo libro, gli uomini sono stati spostati su una seconda nave spagnola e le persone più deboli sono state trasferite direttamente sulla nave “Aquarius”, la nave che poi, una volta avuto posto per tutti i passeggeri, li ha scortati in Italia. Lo sbarco e il pernottamento a Catania, il traghetto da Messina e l’arrivo al centro di accoglienza di transito a Settimo Torinese. Il passaggio alla Croce Rossa di Alessandria per la visita medica e in questura per il rilevamento delle impronte: Djoman ha attraversato tutte formalità burocratiche. La permanenza in un centro di accoglienza di Arquata Scrivia (Alessandria) tra il corso di lingua italiana A2, il diploma di terza media a Novi Ligure (sempre nell’Alessandrino), le attività di volontariato e l’ottenimento del certificato in Mediazione Interculturale sono state il passaggio successivo nella sua nuova vita. Mentre studiava da mediatore all’“Enaip” di Alessandria, Djoman ha ottenuto lo status di rifugiato.  Una volta terminati i mesi di formazione, stage compreso, ha iniziato una nuova vita con il progetto SIPROIMI del Comune di Alessandria.   Il SIPROIMI, ovvero il Sistema di protezione per titolari di protezione internazionale e per minori stranieri non accompagnati, ha cambiato nome: ora si chiama SAI (Sistema Accoglienza Integrazione). Il progetto SIPROIMI a cui Djoman aveva preso parte era gestito dall’Ente del Terzo Settore “Social Domus” di Alessandria, che si occupa dell’accoglienza di migranti e richiedenti asilo, percorsi di inclusione sociale per soggetti vulnerabili, social housing e inserimenti lavorativi per persone in difficoltà.

Proprio qui, in quello che è uno dei Centri di Accoglienza Straordinaria (Cas) per richiedenti asilo attivati dal 2014 dal ministero dell’Interno, Djoman oggi è operatore socio-educativo e mediatore interculturale. Per Djoman, che confessa di non essersi mai immaginato questa carriera, è molto più di un mestiere. Sul posto di lavoro ha trovato una vera e propria famiglia. Tra poco dovrà cominciare il turno e fare le sue ore e gli brillano gli occhi, come se tutti i colori del suo maglione a fantasia blu si fossero accesi contemporaneamente. Confida di star passando una fase straordinaria della sua vita ed è consapevole dell’importanza del ruolo che ricopre. «Quando uno straniero arriva, non conosce la lingua, la rete e il territorio. Il mediatore interculturale fa da ponte tra l’ospite e la nuova realtà: lo assiste nel suo percorso di integrazione, lo segue nella gestione della casa e a scuola, lo accompagna anche in ospedale. Lo aiuta a redigere il curriculum e a cercare lavoro. Gli dà una mano in tutto l’iter per ottenere i documenti».

Chiedere asilo politico in Italia equivale ad imbattersi in un intricatissimo percorso burocratico di cui Djoman descrive i passaggi principali: «Appena sbarcati, gli immigrati vengono mandati in un centro di transito. Alcuni ci restano, altri vengono trasferiti nei centri d’accoglienza sul territorio. Da lì comincia la procedura per i documenti: nei Cas (Centri di Accoglienza Straordinaria) si compila il modello C1, il primo documento richiesto dalla questura. Tra i dati che vengono inseriti, ci sono nome, cognome, Paese di provenienza, nazionalità, data di nascita, nome dei genitori. Quel documento diventa il primo elemento della richiesta di asilo. L’invio in questura coincide con l’avvio della domanda».

Djoman prosegue nel suo racconto: «Poi si compila il modello C3, un documento che non differisce molto dal C1. In seguito, in questura vengono rilevate le impronte e si procede con il foto-segnalamento. Dopo di che, la Questura concede il permesso di soggiorno per sei mesi».  «Con il permesso di soggiorno – continua Djoman – si può andare a scuola, lavorare, vivere nel centro di accoglienza, beneficiare di tutti i diritti e svolgere i propri doveri. Il passo successivo è l’audizione alla Commissione territoriale per il Riconoscimento della Protezione internazionale». Djoman spiega che, in base alla Convenzione di Ginevra del 1951, la Commissione valuta se il richiedente abbia diritto all’asilo oppure no. «In caso di esito positivo, ottiene il riconoscimento della protezione internazionale. Quindi entra a far parte del Sai, riservato a coloro che escono dal Cas. Oppure, se ha trovato il lavoro e si è sistemato, il suo percorso nel centro di accoglienza finisce».

In questi anni, l’integrazione di Djoman è passata anche per alcuni progetti Erasmus+ : da “INCLUSION CAFÈ”, di cui “Social Domus” è stata Ente promotore, a “Intercultural Trialogues – Bridging Migrants, Youth Centres, and Civic Spaces” a Weimar ed Erfurt, in Germania. In tutti questi era coinvolta l’associazione di promozione sociale “La Fenice” di Tortona.

«Tutte le volte in cui ho partecipato, ho imparato molto: c’è gente meravigliosa. È stata una scuola per me. Ad Alessandria ho fatto un progetto basato sull’integrazione come elemento di coesione. Un secondo progetto a Tortona, in provincia, aveva lo sport come elemento centrale». Poi, ancora, Bruxelles nel 2021: «Il punto di partenza sono stati il teatro e la musica. Abbiamo incontrato immigrati e senzatetto. Abbiamo parlato con gente che rivendicava il non avere il documento nonostante vivesse lì da più di vent’anni e che ha scioperato in una chiesa e all’università». Traspare tutto l’entusiasmo di partire, la voglia di stare tra la gente, la spinta a non accontentarsi mai, nonostante le tante lingue che conosce (quattro dialetti dell’Africa, il francese, l’italiano e un po’ di inglese), i luoghi che ha già visitato perché compresi nell’itinerario della sua salvezza e quelli che ha visto per diletto.

Djoman traccia un bilancio di tutto il suo percorso: «Sono cambiato molto rispetto a quando vivevo in Guinea, dopo aver fatto tutta questa strada e aver acquisito un sacco di esperienza in Italia. Non posso però dimenticare tutto ciò che ho fatto lì, la mia cultura, la famiglia e gli amici. Rimango guineano, anche se il mio carattere, la qualità della mia vita e le mie competenze non sono più quelle di prima». Il suo ritorno in Guinea sarebbe condizionato dalla situazione del Paese. «Lo status che acquisirei e le porte che si aprirebbero dipenderebbero dal governo al potere al mio ritorno. Nella mia nazione non abbiamo ancora un governo stabile, né una Costituzione. Non c’è una legge che ci permetta di vivere in pace. Ogni tanto ci sono dei colpi di stato, degli episodi di terrorismo, le guerre tra etnie, le tensioni tra cristiani e musulmani. Bisognerebbe cercare di risolvere questi problemi per poter andare avanti. Io tornerei se la situazione cambiasse in positivo, altrimenti è meglio non andare a mettersi nei guai».

Djoman preserva il suo essere guineano: «Non posso però dimenticare tutto ciò che ho fatto lì, la mia cultura, la famiglia e gli amici. Rimango guineano, anche se il mio carattere, la qualità della mia vita e le mie competenze non sono più quelle di prima».

Djoman non smette di studiare, di formarsi, di cogliere tutte le opportunità che la nuova esistenza nel nostro Paese gli sta offrendo. E poco importa se non si sveglia e può ammirare la tour Eiffel, ma soggiorna nella città di Umberto Eco. Ora la sua ambizione è perfezionare i propri studi in Sociologia iscrivendosi ad un corso di laurea magistrale. Resta da capire perché una persona con un bagaglio di esperienza simile non possa essere percepita come una ricchezza per il nostro Paese.