È il 17 dicembre 2010 quando a Sidi Bouzid, cittadina rurale nel cuore della Tunisia, l’ambulante Mohamed Bouazizi decide per disperazione di darsi fuoco dopo l’ennesimo sequestro della propria merce da parte della polizia. Un gesto estremo, in una città apparentemente lontana dai centri del potere, che fungerà da catalizzatore per le proteste che da lì in avanti si diffonderanno a macchia d’olio in Nord Africa e in Medio Oriente, denominate dal politologo Marc Lynch “primavera araba” sulla rivista americana Foreing Policy.

Algeria, Egitto, Iraq, Siria, Libia, Yemen, Bahrein, ma anche Arabia Saudita, Gibuti, Somalia, Sudan, Marocco, Giordania, Kuwait. Milioni di persone in piazza, nonostante le violente repressioni dei regimi, per reclamare libertà, giustizia sociale, sviluppo economico, il rispetto per le minoranze e la fine della corruzione. Un movimento – in parte spontaneo in parte infiltrato dall’organizzazione islamista dei Fratelli Musulmani – che ha determinato in molti Paesi la caduta dei dittatori al potere da molti anni e l’instaurazione di un nuovo governo.

Foreign Policy chiamò la rivoluzione del 2011 “primavera araba”: ma secondo molti analisti, a distanza di dieci anni, è una rivoluzione incompiuta, perché ha rafforzato quell’autoritarismo che si sarebbe voluto debellare

Dopo dieci anni da quelle sommosse, però, l’aspirazione di chi sognava una grande rivoluzione politica in grado di trasformare regimi oppressivi in sistemi democratici potrebbe dirsi fallita.Dall’Egitto alla Siria, passando per lo Yemen e la Libia, il vento di libertà e di speranza della primavera del 2011 ha lasciato il posto alla violenza e al terrore praticati oggi dai nuovi tiranni al potere. È il caso dell’Egitto, governato dalla dittatura militare di al-Sisi, al potere dopo il golpe del 2013 contro l’esponente della Fratellanza Musulmana Mohamed Morsi.

Non è andata meglio alla Siria: mentre il Paese è dilaniato da una guerra civile ancora in corso – diventata quasi subito guerra per procura, in cui attori regionali e internazionali finanziano diversi gruppi armati, molti di matrice jihadista, per bilanciare le rispettive influenze – a Damasco siede ancora Bashar al-Assad, membro di una famiglia al potere da cinquant’anni.E se in Yemen e in Libia le rivolte hanno prodotto vuoti di potere colmati da caos, terrorismo e interventi militari esterni, l’esperimento democratico tunisino si regge sulla sabbia a causa della forte instabilità interna, aggravata da quella regionale.

Oggi l’eredità della primavera araba sembra essere sparita. L’ondata pro-democrazia nata dal sacrificio di Bouazizi ha, infatti, assunto diverse forme. Se in molti hanno abbracciato ideologie estreme, contribuendo al consolidamento di gruppi jihadisti con finalità eversive, altri hanno appoggiato soluzioni altrettanto reazionarie, favorendo l’ascesa di leader tutt’altro che propensi a implementare politiche democratiche.Una rivoluzione che molti analisti definiscono incompiuta, che in molti casi ha rafforzato quell’autoritarismo che si sarebbe voluto debellare.