Riccardo Cucchi storica voce di Radio Rai ha trasmesso l’amore per il calcio ad almeno due generazioni di ascoltatori. Dall’inizio della sua carriera, passando per il “tumulto” della Finale di Berlino del 2006, fino all’ultima radiocronaca del 12 febbraio scorso ha creato un inconfondibile stile del racconto radiofonico. Perché “per essere radiocronista bisogna emozionarsi”.

Riccardo Cucchi, quando si è appassionato alla radio?

«Da bambino. Come credo sia giusto per chi voglia far nascere un sogno e coltivarlo. Tutto il calcio minuto per minuto è nato quando avevo otto anni. Quindi ho avuto la possibilità di ascoltare le prime trasmissioni, le voci di meravigliosi radiocronisti. La domenica mi chiudevo in camera con l’album di figurine davanti. Ascoltavo Enrico Ameri e Sandro Ciotti che raccontavano le partite e cercavo di capire il volto dei calciatori guardando le fotografie nelle collezioni. Ma soprattutto sognavo. Sognavo di poter fare questo mestiere accanto ad Ameri e Ciotti negli spalti degli stadi. La radio provoca una forte emozione. Un’onda emotiva che ti rimane dentro. Alla fine il mio sogno si è realizzato grazie alla preparazione, a un colpo di fortuna e ad altri fattori positivi che mi hanno consentito di arrivare al microfono. E di questo sono molto contento».

Quali consigli darebbe a chi vuole intraprendere questa carriera?

«Innanzitutto diventare giornalisti, che è la cosa più complicata. Il nostro mestiere è affascinante e bellissimo, ma le strade di accesso sono complicate. Occorre arrivarci preparati e con un percorso chiaro. Un giornalista deve avere conoscenze tecnologiche, culturali, linguistiche. E poi bisogna sentire dentro di sé quali sono le cose più congeniali al proprio modo lavorare. C’è chi può fare questo mestiere scrivendo, chi parlando al microfono, chi stando davanti a una telecamera. Sono tre mestieri diversi. Se tu mi chiedi: “Cosa è necessario per essere radiocronista?”. Tra le tante cose che potrei dirti ne scelgo soltanto una: “Essere capaci di emozionarsi. E soprattutto trasmettere emozioni e avere grande rispetto per coloro che ascoltano. Perché sappiamo benissimo che alla radio, la voce del radiocronista equivale agli occhi dello spettatore. E lui deve potersi fidare di chi parla. Per cui ci vuole grande rispetto delle cose che si raccontano. Devono essere espresse nel modo più veritiero possibile. Ricordi quella definizione di Enzo Biagi? La sua definizione del nostro mestiere rimane ancora la più bella, perché disse: “Il giornalista è un testimone della realtà”. Chi più di un radiocronista è testimone?

Lei ha lavorato con dei mostri sacri come Enrico Ameri, Alfredo Provenzali e Sandro Ciotti. Cosa le hanno lasciato? 

«Negli anni in cui muovevo i primi passi intorno a questa meravigliosa trasmissione, Ameri mi disse una cosa che mi è rimasta impressa per tutta la vita. “Il giorno in cui ti accorgessi — entrando in uno stadio, salendo nella tua postazione — di non essere emozionato…rifletti. Perché potrebbe essere giunto il momento di smettere”. Non smetto per questo. Infatti mi sono emozionato anche domenica (12 febbraio, ultima radiocronaca ndr). Smetto perché c’è un limite d’età. Ed è giusto accettare l’evolversi del tempo e soprattuto lasciare spazio ai giovani».

Il 9 luglio 2006 ha raccontato l’Italia Campione del Mondo, quali ricordi conserva di quella sera?

«Un grande tumulto. Il tumulto del cuore che mi ha accompagnato prima, durante e dopo la radiocronaca. Credo che sia l’obiettivo più grande fra i tanti desideri che può coltivare un giornalista nella sua carriera. L’occasione di vivere una finale con l’Italia, e magari dire: “Campioni del Mondo”. Prima di me soltanto Niccolò Carosio, nel 1934 e nel 1938, e Enrico Ameri nel 1982 nella finale di Madrid contro la Germania hanno avuto questo onore. Penso a Sandro Ciotti che non riuscì a gridare: “Campioni del Mondo”. Nella finale di Pasadena, quella che aveva nel destino nel 1994, fu vinta dal Basile. Ciotti quel grido l’ha soffocato in gola. E poi nel 2006 è toccato a me. Quei due giorni che hanno preceduto la partita, oltre a lavorare, li ho passati a pensare su come avrei dovuto impostare la radiocronaca. Mi sono chiesto anche se non fosse giusto scrivere qualche riga, nell’evenienza che la squadra azzurra vincesse il titolo. Non l’ho fatto. Ho voluto lasciami trascinare dall’onda emotiva, che ho vissuto dopo il calcio di rigore di Grosso. Poi non ho potuto dormire, il carico di adrenalina nel sangue era troppo forte. Quindi ho vagato per le vie di Berlino di notte, in attesa dell’alba e dei primi collegamenti con il Giornale Radio. Sono ricordi indelebili».«Dopo il calcio di rigore di Grosso non ho potuto dormire. Quindi ho vagato per le vie di Berlino di notte, in attesa dell’alba e dei primi collegamenti con il Giornale Radio».  

Passiamo all’attualità calcistica. Anche quest’anno la Juventus sta dominando il campionato. I bianconeri sono pronti per la vittoria della Champions League?

«Li vedo molto determinati in campo. Alla Juventus il campionato serve per capire meglio le sue possibilità tattiche e tecniche. Allegri e la squadra scendono in campo con un solo obiettivo: vincere. E questo, per ora, la rende assolutamente insuperabile. Se la Juventus metterà lo stesso temperamento, la stessa mentalità, la stessa voglia del campionato, credo, anche alla luce di alcuni risultati un po’ sorprendenti che stanno maturando, che la Juventus potrebbe arrivare fino in fondo. Che riesca a vincere la Coppa? Questo è davvero impossibile da dire. È un traguardo molto difficile da raggiungere, perché servono tante circostanze favorevoli, non soltanto le qualità tecniche e tattiche. Ci vogliono episodi e un pizzico di fortuna. Però sicuramente ha le potenzialità».

Il calcio italiano non ha più la forza economica di qualche anno fa. Se avesse in mano le chiavi del movimento come lo riformerebbe?

«In primis ridurrei il numero di squadre in Serie A, questo è fondamentale. Un passaggio difficile per le resistenze da parte dei club. La Serie A regala soldi attraverso i diritti televisivi. Esserci significa avere più disponibilità finanziaria. Quest’anno è particolarmente evidente che 20 squadre siano troppe. Per cui il divario, tra chi è in testa e chi è in coda, è troppo ampio. Così il campionato rischia di perdere interesse, anche per le televisioni. Queste hanno bisogno di più partite per avere tanti abbonamenti. Ma se le sfide si rivelano poco interessanti anche la tv fa una riflessione. Voglio aggiungere che ormai il calcio è un grande business, però è un’industria che al contrario di tutte le altre produce passione. La passione dei tifosi. Loro non amano essere clienti e vogliono essere rispettati per la passione che hanno. E senza tifosi il calcio non sopravvive.«I tifosi non amano essere clienti e vogliono essere rispettati per la passione che hanno. E senza di loro il calcio non sopravvive».

Molti italiani si chiedono cosa farà adesso la domenica?

«Come prima cosa tornerò ad essere un ascoltatore di Tutto il calcio. Nel mio ultimo collegamento l’ho definito “un autentico gioiello”. L’ha ideato un visionario, Guglielmo Moretti. Poi, questa intuizione è stata elaborata insieme a Sergio Zavoli e Roberto Bortoluzzi, che fu il primo conduttore. Sarà piacevole ascoltare i colleghi che stanno per prendere il mio posto. Per 10 anni sono stato il coordinatore di questo straordinario gruppo di lavoro, che spero in qualche modo di aver fatto crescere. Quando accenderò la radio tornerò bambino. Perché lo si è sempre quando si racconta il calcio».