Quante volte ci è capitato di acquistare un prodotto online, magari un capo d’abbigliamento, ma poi mandarlo indietro perché difettoso oppure perché di una taglia sbagliata? L’industria della moda è uno dei settori produttivi più inquinanti: nella sola Unione Europea, è il quarto settore per ecological footprint e il terzo per consumo di acqua e del suolo. Tale tendenza viene accentuata dall’avvento della moda “usa e getta” (fast fashion) e, soprattutto, dalla pratica dei resi online. Abiti venduti e resi più volte, pacchi di vestiti che viaggiano per migliaia di chilometri tra Europa e Cina, senza costi per l’acquirente ma con un enorme impatto ambientale. Sono queste le conclusioni dell’indagine condotta da Greenpeace Italia che, in collaborazione con Report, ha tracciato i viaggi compiuti da alcuni capi d’abbigliamento acquistati su piattaforme di e-commerce.
L’indagine di Greenpeace e Report
«Molto spesso si pensa all’impatto di un capo d’abbigliamento nelle fasi produttive, magari allo sfruttamento dei lavoratori, soprattutto per i prodotti a basso costo, ma ci si interroga poco sulle emissioni di gas serra associate al trasporto dei vestiti, in particolare nel caso dei resi». Intervistato da Magzine, Giuseppe Ungherese, responsabile della campagna inquinamento di Greenpeace Italia, parte da queste riflessioni, sottolineando il grande impatto ambientale che ha la filiera del trasporto dei vestiti. «L’indagine che abbiamo condotto insieme alla trasmissione Report – afferma Ungherese – ha riguardato ventiquattro capi d’abbigliamento che, in poco meno di due mesi, hanno percorso circa 100mila chilometri».
LʼUnità Investigativa di Greenpeace ha acquistato online 24 capi di abbigliamento da otto aziende: Amazon, Temu, Zalando, Zara, H&M, Ovs, Shein e Asos. Prima di effettuare i resi, è stato nascosto un GPS in ogni vestito per tracciarne gli spostamenti e scoprire il mezzo di trasporto usato.
Nei 58 giorni di ricerca, i pacchi hanno percorso nel complesso circa 100 mila chilometri attraversando 13 Paesi europei e la Cina. Mediamente, la distanza percorsa dai prodotti per consegna e reso è stata di 4.502 km. Il tragitto più breve è stato di 1.147 km, il più lungo di 10.297 km. Il mezzo di trasporto maggiormente usato è stato il camion, seguito da aereo, furgone e nave. I vestiti sono stati venduti e rivenduti complessivamente 40 volte (in media 1,7 vendite per abito) e resi 29.
Dallo studio emerge che le filiere hanno tempistiche diverse. Una consegna è generalmente garantita in 24/48 ore, mentre i tempi dei resi differiscono: si va dai 14 giorni di Asos ai sei di Amazon e Shein, passando per i tre di H&M e i due di Ovs, Zalando e Zara.
L’impatto ambientale (e sociale) dei resi
Dopo essere stato riconsegnato, il prodotto viene igienizzato e impacchettato nuovamente. Spesso le aziende sono costrette a vendere a prezzi di saldo i vestiti in questione, ma l’onerosità (in termini di tempo e soldi) di tali processi spesso invoglia i produttori a mandare direttamente al macero il capo d’abbigliamento, soprattutto se di scarso valore economico, aumentando in questo modo l’inquinamento ambientale.
Ungherese sottolinea anche l’inquinamento del packaging. «Il grosso dell’impatto in termini di gas serra è dettato dalla filiera del trasporto. Ma poi ci sono anche le emissioni legate al packaging perché si presume che questi capi una volta restituiti devono essere ricontrollati, disimballati e rimpacchettati».
La start up INDACO2 ha stimato le emissioni prodotte dal trasporto e dal packaging dei capi d’abbigliamento presi in esame dal report. Per il confezionamento di ogni pacco vengono usati, in media, 74g di plastica e 221g di cartone. L’impatto ambientale del trasporto di ogni ordine e reso corrisponde a circa 2,78 kg di CO2, emissioni su cui il packaging incide per circa il 16%. Prendendo come esempio un paio di jeans (del peso medio di 640 g), il trasporto del capo ordinato e reso comporta un aumento del 24% delle emissioni di CO2.
«La nostra indagine conferma come la facilità con cui si possono effettuare i resi nel settore del fast fashion, quasi sempre gratuiti per il cliente, generi impatti ambientali nascosti e molto rilevanti», spiega Ungherese.
Il fenomeno dei resi online è in costante crescita, soprattutto negli ultimi anni. Ma quali sono i motivi di questo fenomeno? Riflettendoci, per tutti può essere molto più comodo acquistare dei capi online, provarli ed eventualmente restituirli gratuitamente all’azienda. Secondo Ungherese, le aziende vanno in contro «a un desiderio del cliente, alimentando però l’acquisto compulsivo e incrementano le produzioni di un settore che non è notoriamente green».
L’impatto dei resi online non è solamente ambientale, ma anche sociale. Gli abiti prodotti in Occidente sono spesso di bassa qualità e difficilmente riciclabili: anche per quest’ultimo motivo, tali vestiti finiscono nelle zone più povere del Sud America e, soprattutto, in Africa. «Abbiamo effettuato uno studio insieme ai nostri colleghi di Greenpeace Germania che andava a tracciare gli abiti di seconda mano che arrivano in alcune nazioni africane. – spiega Ungherese – In certe aree esiste un sistema per cui le persone comprano i vestiti “a scatola chiusa”, trovandosi molto spesso con abiti inutilizzabili perché non adatti al clima del continente», afferma.
Quali soluzioni?
Per Ungherese, esistono diverse soluzioni per arginare il problema: una produzione più contenuta e di qualità ma, soprattutto, maggiore trasparenza da parte delle aziende circa l’impatto ambientale dell’intera filiera. «Vorremmo che si facesse qualcosa a livello di regolamentazione che vada a impedire questo reso facilitato – spiega –. Le aziende non possono limitarsi all’introduzione di una fee per far pagare il reso perché si tratta di pochi spiccioli rispetto a quello che è il reale danno ambientale. Alcune nazioni europee come la Germania hanno già legiferato per fare in modo che i marchi siano sempre più trasparenti sulla gestione dei resi. Purtroppo, poco si può fare contro la pratica dei resi facilitati, trattandosi di un diritto del consumatore», afferma. In conclusione, «bisognerebbe realizzare una vera economia circolare che non vuol dire solamente riciclo. I materiali infatti devono durare il più a lungo possibile e solamente alla fine devono essere riciclati».