Una casa al terzo piano di via Mondello a Milano. Due cancelli, un giardino, qualche rampa di scale e un ascensore in ferro battuto. Una stanza immersa nella penombra. E poi decine di pipe: Piero Scaramucci ne accende una, la fuma lentamente. Libri, tanti: dodici piani di cultura, storie, retroscena, poesie, saggi, mentre ascolta Radio Popolare. È la sua radio, l’ha fondata nel 1976 per lasciarla nel 2002.
Il giornalista parla del suo lavoro in Rai quando la controinformazione organizzata esisteva anche nella televisione nazionale. Poi ricorda i giorni che lo videro testimone della vicenda di Pinelli.
«Con Lotta Continua avevo seguito l’accaduto, ma fui quasi colto alla sprovvista quando Licia mi chiamò per parlare del marito». Poi l’impegno politico, la volontà di non piegarsi ai ritmi della tv di stato, o meglio, di conviverci. Ed ecco la prova tangibile del suo operato. I bollettini di controinformazione che il giornalista pubblicava insieme a quel brillante gruppo di giornalisti militanti.
Scaramucci li sfoglia, posa la pipa.
La situazione negli anni Sessanta e Settanta
Esisteva un controllo dell’informazione?
C’è sempre stata un’informazione che dipende dai poteri politici e che pubblica o no in funzione del mandato che riceve dal referente politico. In quegli anni non c’era un vero e proprio quotidiano di controinformazione, ma il quotidiano Il Giorno fondato da Enrico Mattei, offriva un diverso punto di vista alle giovani generazioni. Un giornale né rivoluzionario né comunista ma pensato da ottimi giornalisti, quali Marco Nozza, Guido Nozzoli, Corrado Stajano, Camilla Cederna, Giampietro Testa, Gabriele Invernizzi: hanno fatto i cronisti, raccontando anche quelle cose che erano scomode al potere e che altri giornali non raccontavano. Non sempre però riuscivano a pubblicare: a volte venivano censurati.
Chi faceva propriamente controinformazione?
Un’organizzazione della sinistra extraparlamentare che si spendeva in un lavoro di intelligence: arrivavano informazioni sui fascisti, sugli attentati, sulla situazione delle fabbriche, che permettevano di capire come stavano veramente le cose. Nel ‘69 la vera controinformazione ancora non esisteva.
Gli anni alla Rai
Lei lavorava in Rai in quegli anni, come era considerato?
In Rai ero considerato “la pecora rossa”. Su Piazza Fontana e dintorni mi facevano lavorare pochissimo, mentre mi sono occupato molto movimento studentesco del 1968 e 1969. Da militante, conoscevo, sapevo, avevo rapporti, partecipavo alle assemblee e potevo raccontare delle cose. Gli altri giornali avevano un approccio diverso: l’importante era non dare troppa importanza a quelle agitazioni studentesche.
Cosa voleva dire lavorare in Rai in quel periodo?
Nella prima metà degli anni ’60 dovevi solo scrivere la notizia.
Col passare degli anni, lo spazio per i giornalisti è aumentato, ma non era facile riuscire a far passare elementi che in giro non circolavano. Io lo facevo mettendo le parole in bocca agli intervistati.
La sua appartenenza politica le ha creato problemi?
Ero in Lotta Continua, dopo essere stato nelle Brigate Rosse. Ma sapevo che se volevo raccontare le cose sul servizio pubblico dovevo farlo in un modo. La partita era quella e io me la giocavo.
Alla Rai, pur essendoci grandi giornalisti mai capaci di stare zitti come Beppe Viola o Romano Battaglia, c’era sempre un controllo politico democristiano: colleghi che ispezionavano, che spiavano, che riferivano. Con i democristiani un po’ si trattava, un po’ si litigava, ma poi alla fine si arrivava a un compromesso.
In Rai venne fatta controinformazione?
Nel 1970, alla Rai di Milano, in via Riva di Villasanta abbiamo occupato una stanza in modo permanente per due mesi e abbiamo prodotto un bollettino interno: Cronaca Della Lotta. Erano 5-6 pagine quotidiane, micidiali. Lì raccontavamo i segreti della Rai, notizie che ovviamente non sarebbero mai uscite, che riguardavano l’organizzazione del lavoro e la censura.
I giorni della strage
A Milano cosa successe nelle ore successive a quel 12 dicembre 1969?
Dopo la strage di Piazza Fontana si fece fatica a capire di chi fosse l’iniziativa anche se intuimmo subito che la bomba era una provocazione.
Il 15 dicembre è stata una giornata fondamentale: i funerali di stato, la risposta della gente è stata straordinaria. Non ho mai più visto una cosa del genere. La situazione era surreale perché i sindacati, metalmeccanici e Uil su tutti, proclamarono lo sciopero.
Poi il 16 dicembre.
In quel giorno si seppe che un anarchico era stato arrestato e un altro si era buttato dalla finestra. Si comprendeva che la versione data dalla polizia non era credibile: era folle pensare che quell’anarchico si buttava dalla finestra urlando la fine dell’anarchia. Lì c’è stata paura da parte di tutti. Qui nacque la controinformazione, qui iniziammo il lavoro di ricerca.
Cosa accadde alla conferenza stampa della polizia?
A quella conferenza, avvenuta tra il 15 e il 16 dicembre, in cui vennero incolpati gli anarchici c’erano Corrado Stajano e Giampaolo Pansa, oltre ad altri giornalisti di spicco. Due giorni dopo Lotta Continua rivelò che non erano gli anarchici ad aver progettato la strage e si andò avanti per mesi cercando di stanare i veri colpevoli. In primavera vennero spedite le prime querele, compresa quella al commissario Luigi Calabresi, che però non voleva andare in aula a testimoniare. Lotta Continua accusava Calabresi di avere affermato il falso per nascondere la verità.
Ci furono altri eventi sospetti attorno all’accusa degli anarchici?
Il trasferimento dell’inchiesta a Roma. La pratica non convinse nessuno e venne mandata a Roma al procuratore Vittorio Occorsio, dove restò ferma due anni. Era un chiaro tentativo di insabbiamento. Ci chiedevamo: perché se il fatto era accaduto a Milano, bisognava occuparsene a Roma? Ugo Paolillo, il procuratore di Milano, non accettò mai la decisione. A lui venne tolta l’inchiesta immotivatamente.
La controinformazione
Come definirebbe la controinformazione?
La controinformazione è lo strumento per sapere ciò che il potere ti vuole nascondere. Saperlo, capirlo, trovarlo e soprattutto farlo sapere agli altri.
Cos’era la controinformazione negli anni Settanta?
Fu uno straordinario strumento di cui si dotò la sinistra extraparlamentare, per indagare sulla realtà, per capire come stavano realmente le cose, al di la delle versioni ufficiali che erano troppo spesso devianti, strumentali e di appoggio a strutture eversive, legate al terrorismo. Ogni gruppo si dotò di strutture proprie per indagare, capire, studiare e poi far emergere delle verità. Ci furono delle grandi battaglie politiche, sorrette dalla controinformazione, che fornirono all’opinione pubblica strumenti di comprensione per scoprire segreti che custodiva il potere.
Come nacque il primo gruppo di controinformazione?
Marco Ligini ed Eduardo Di Giovanni ebbero una dritta dai servizi segreti. La notizia trapelò da qualcuno, feci loro capire le anomalie della strage e la sua possibile matrice fascista.
Contemporaneamente a Roma partì l’inchiesta sui fascisti. A Milano un gruppo di cattolici si organizza a Licia Pinelli. A casa Pinelli si crea un centro di controinformazione consistente: giornalisti, tra i quali Gabriele Invernizzi, avvocati, gruppi della sinistra. Un grande lavoro di inchiesta durato pochi mesi, visto che il libro esce per la prima volta nel giugno del 1970. Lì, abbiamo veramente capito come stavano le cose: tutto era stato organizzato dai fascisti per colpire ingiustamente gli anarchici.
Come contribuì Lotta Continua?
Con assemblee e riunioni segrete. Si decise di produrre il BCD (Bollettino di controinformazione democratica) per rendere pubbliche notizie che non trovavano spazio negli altri giornali. Lo distribuivamo per tutta Milano e provincia. Si parlava, si trovavano elementi, quando qualcuno notava una stranezza, aveva un documento per le mani, riceveva una confidenza o una telefonata, lo diceva al gruppo. Si partiva da lì. Senza dare troppo nell’occhio. A mio avviso la controinformazione vera e propria nasce lì.
Se si veniva scoperti, non rischiavate il posto di lavoro?
Nessuno ha perso il posto di lavoro per aver fatto controinformazione. Certo, era d’obbligo fare attenzione. Non dovevano trovarti con documenti compromettenti in mano, ovvio.
Il caso Pinelli
Scaramucci, come è arrivato a sapere del caso Pinelli? Chi vi mise in contatto?
Licia Pinelli mi ha sempre detto che sono stato scelto dalle figlie, che mi avevano visto in tv.
In questa storia la mia militanza politica non c’entra nulla.
Mi telefonò l’avvocato Bruno Manghi. Fissammo un appuntamento a casa sua. Arrivai lì e la Pinelli mi disse che mi voleva raccontare tutti gli aneddoti legati a quella storia. Immagina quanto ho goduto. Erano passati 10 anni dal caso Pinelli, ma la cosa era ancora attualissima.
Fu un classico esempio di controinformazione?
Il caso Pinelli fu la prima grande operazione di controinformazione di Lotta Continua. Quando il questore disse nella notte, poche ore dopo la morte di Pino, che «l’anarchico si era buttato dalla finestra al grido della fine dell’anarchia», i più avveduti non ci credettero, ma tentarono di smontare questa versione. Vennero raccolti elementi, testimonianze, documentazioni.
Tanto è vero che poi negli anni la figura di Pino è stata riabilitata, tanto che il 9 maggio 2009 il presidente Napolitano ha affermato che Pinelli è stato vittima due volte: di una fine assurda e di un ingiusta infamia sul suo nome. Non dobbiamo dimenticare il contesto di allora, il coro della stampa e non solo quella governativa, ma tutte le testate credevano alla versione ufficiale. Lotta Continua no. Grazie alla controinformazione e all’azione giudiziaria, Lotta Continua andò a caccia di quella verità che gli anni hanno dimostrato fondata e sicura.
Come si sviluppò l’intervista?
Fu l’intervista più difficile di tutta la mia vita perchè la Pinelli è una persona riservata. Inoltre erano passati ben 10 anni dall’omicidio del marito, anni durante i quali lei si era chiusa in sè stessa. Si assunse la responsabilità di questa vicenda con grande umanità e sensibilità: così decise di parlare.
L’intervista durò sostanzialmente due anni.. All’inizio Licia mi diceva pochissime cose, poi sembrava sciogliersi, poi ritrattava, poi voleva modificare ciò che mi aveva detto.
Tra l’altro batteva a macchina lei stessa le sue dichiarazioni, sbobinava lei, dato che come lavoro batteva a macchina le tesi universitarie. In ogni caso dovevo indagare e fare domande sempre io, altrimenti lei non parlava. Ci vedevamo due o tre volte in una settimana, poi nessuno incontro per un mese. Dopo un anno e mezzo di informazioni, andai in vacanza. In tre mesi scrissi di getto tutto il libro.
Con quale schema?
Prima di scrivere avevo chiari quattro elementi irrinunciabili: la storia e la vita di Pino, la battaglia di Licia, gli aneddoti riguardanti il caso e come lo aveva vissuto, il rapporto di Licia, lo sviluppo della loro storia. Sono partito da qui e poi mi sono avvalso dell’aiuto di Licia. Si ricordava perfettamente ogni cosa, lei. E si emozionava ogni volta.
Non dimentico mai il momento in cui mi raccontò dell’arrivo in casa sua dei giornalisti e della corsa successiva in ospedale. In due suonarono alla porta due giornalisti per chiederle commenti sul balzo di suo marito dal balcone della caserma. Lei non ne era a conoscenza, allora. Chiamò in caserma. Le rispose Calabresi: “Ho cose più importanti da fare che avvisarla” le disse.
Corse con la suocera in ospedale e nessuno le dava retta. Solo alla fine comprese che Pino era morto e lo rivide disteso su un letto privo di vita, per l’ultima volta dopo la tragedia.
La controinformazione oggi
La controinformazione oggi, c’è o non c’è?
Non esiste. Le notizie ci sono e bisogna solo andarsele a cercare, fare delle inchieste, guardare documenti, carte, immagini, approfondire.
Giornalisti che lo fanno ci sono, Travaglio è uno di questi. Il Fatto Quotidiano è un giornale che lo fa molto bene. Si è specializzato nel tirar fuori notizie, fatti, indiscrezioni e poi nell’approfondirle, trovando collegamenti, riferimenti e dando un senso logico all’inchiesta.
Dentro le altre redazioni mi sembra che gli editori non siano interessati a questo genere di cose. Più che altro perché i tempi si sono molto ridotti, occorrono articoli più brevi, più veloci, scritti da meno persone. Oggi il vero problema è fare informazione. Forse è possibile trovare qualcosa in rete, dove c’è molto di falso ma esiste anche qualche contro-verità.
di Giuditta Avellina, Enrico Turcato