A pochi giorni dalla fatidica data in cui sarà chiaro il bluff della comunità internazionale sul Kosovo, nuovi inquietanti segnali d’instabilità arrivano dalla regione balcanica. Indipendenza o no. Tertium non datur. E il bluff sarà chiaro perché il gioco è a somma zero: ciò che si dà a una parte, la si toglie all’altra.
O vince Belgrado, disponibile a concedere un’ampia autonomia ad una provincia che, di fatto, non controlla più da quasi vent’anni, ma mai a concederle l’indipendenza. O vincono gli Albanesi, ottenendo di chiamare Stato quello scherzo geopolitico grande come l’Abruzzo e trasformatosi in un feudo della mafia kosovara. Altre soluzioni non ce ne sono. Non c’è spazio per equilibrismi dialettici e sofismi politici. La società albanese, intanto, ha chiaramente dimostrato di essere scontenta della situazione, del comportamento obliquo e ondivago della comunità internazionale ma anche della propria leadership, corrotta e incompetente. Alle politiche del 17 novembre ha partecipato solo il 50% degli aventi diritto. Decisamente poco, per un popolo ad un passo da un traguardo storico. Il contesto ideale, insomma, perché tornino in azione formazioni estremiste d’impronta paramilitare e aventi programmi con una prevalente connotazione etnica. Quanto è puntualmente successo.
Tra ottobre e novembre, sequenze girate con tecnica amatoriale sono state trasmesse dalla Rtk kosovara e da altri canali regionali. In Europa, chi ha scritto della vicenda ha parlato di un video. In realtà, i video sono due e sono stati girati in due diverse località. Particolare non di poco conto, perché gli analisti dei servizi (della Kfor ma anche quelli serbi e macedoni) possiedono una mappatura dettagliata delle zone d’influenza della “guerriglia” albanese, e che un video sia stato girato a Tetovo piuttosto che nei d’intorni di Preševo o a Podujevo, non è la stessa cosa.
Il primo è stato trasmesso mercoledì 3 ottobre dalla televisione di stato kosovara, la Rtk. È un video girato di notte, con sequenze dal forte impatto che mostrano una quindicina di uomini con passamontagna in uniformi nere con le insegne della formazione e dotati di armi leggere ma sofisticate, come gli Ak-47. Un ufficiale passa in rassegna quella che sembra essere un’unità scelta. In un’altra scena, gli stessi sono filmati in azione, mentre fermano il traffico su quella che s’intuisce essere un’importante arteria. Viene inquadrato un cartello stradale che indica la direzione per Niš (Serbia meridionale) e una svolta a 500 metri per Podujevo (Kosovo settentrionale). Su Youtube è disponibile il video così come mostrato da un telegiornale serbo. Il commento della speaker permette di capire che gli uomini ripresi appartengono alle Aquile Nere, un gruppo speciale dell’Aksh.
Nel secondo, che è invece girato di giorno, si vedono pochi uomini che marciano lungo un tratturo, con mimetiche e giubboni scuri, senza insegne come anche i passamontagna d’ordinanza. Vengono poi ripresi su un’altura, con un bacino idrico alle spalle, mentre uno di loro tiene aperto un quotidiano albanese a favore di camera e un altro, probabilmente il capo, legge un proclama. La voce è alterata elettronicamente. Il video è stato trasmesso da un canale macedone e ripreso da uno croato all’inizio di novembre, e sembrerebbe esser stato girato nei dintorni di Kumanovo, nella Macedonia nord-occidentale. Oltre ai proclami e ai video, però, c’è qualcosa di più.
Proprio dalla Macedonia arrivano segnali inquietanti. Negli ultimi due mesi si sono verificati incidenti, troppi perché si possa pensare al caso. Gli esperti di “cose balcaniche” vi riconoscono i segnali di qualcosa che si muove sottotraccia. La storia va raccontata partendo da tre nomi: Lirim Jakupi,Ramadan Shiti e Xhavit Morina. I tre, comprensibilmente sconosciuti al grande pubblico, sono ex combattenti dell’Uçk, detenuti in Kosovo nel carcere di Dubrava e “misteriosamente” evasi di prigione il 18 agosto di quest’anno. La notizia della loro evasione ha fatto scattare l’allarme a Skopje. Pochi giorni dopo, il 24 agosto, uno dei comandanti dell’Aksh – Xhezair Shaqiri, detto Hoxha – annuncia di voler indire un referendum per annettere la città macedone di Tanusevci al Kosovo. I servizi macedoni sanno che gli affari dei tre gravitano attorno alla Macedonia albanese. Per questo sospettano che la loro fuga sia stata favorita da quei gruppi che si stanno riarmando e che avevano già dimostrato di saper infiltrare le strutture di sicurezza del Kosovo.
La memoria torna a quando Agem Çeku, ex comandante della guerriglia kosovara, quando guidava il Tmk – una sorta di protezione civile armata in cui si era riciclato l’Uçk – intimò ai suoi uomini di non collaborare in alcun modo con l’Aksh. Risultato: in 70 lasciarono il corpo spontaneamente, 32 invece furono invitati a riconsegnare armi e distintivo. A Skopje riconoscono le prime tracce del paramilitarismo che torna. L’11 settembre viene assassinato Fatmir Alili, albanese e ispettore della polizia macedone, a Vaksince.
Il 24 ottobre muore un poliziotto nei pressi di Tanuševci, non lontano dalla frontiera con il Kosovo. A farlo fuori un gruppo armato che il Ministero dell’Interno macedone etichetta subito come gruppo di trafficanti. Come se la storia delle strane guerriglie albanesi non fosse soprattutto una storia di traffici.
Il 27 ottobre cinque dipendenti della compagnia elettrica di stato vengono sequestrati da un gruppo armato non identificato. Il primo novembre viene ritrovato il corpo di Morina, uno dei tre evasi. Lo trovano in un villaggio a nord di Tetovo. I tanti indizi raccontano che l’estremismo albanese sta scavando nuove trincee e nel sottobosco criminale si stanno regolando i conti. Per sapere quale sia la sorte degli altri due si deve solo aspettare una settimana. Il 7 novembre si chiude il cerchio. Le forze speciali della polizia macedone – un’unità mista – lancia verso le 5 del mattino un’operazione nel villaggio di Borodec, che viene prima isolato e poi “bonificato”. Le teste di cuoio ingaggiano un violento conflitto a fuoco con quella che ha tutta l’aria di essere una formazione paramilitare. Il bilancio finale è di sei guerriglieri morti, tredici arrestati e sei in fuga. Tra i morti c’è Ramadan Shiti, tra quelli riusciti a fuggire Lirim Jakupi. Se due più due fa quattro, hanno ragione gli ufficiali macedoni nel dire che l’evasione da Dubrava è stata organizzata da strutture oscure che stanno lavorando per la destabilizzazione dell’area. Il bottino sequestrato è impressionante, un vero e proprio arsenale nascosto in una moschea: fucili d’assalto e da cecchinaggio, granate, bombe a mano, lanciarazzi, missili antiaerei a guida laser, migliaia di cartucce e delle inquietanti uniformi nere. Quella sgominata con l’operazione “tempesta di montagna” è una cellula dell’Aksh?
La risposta più probabile è che si, l’Aksh sia tornata in attività ma che per adesso il suo obiettivo non sia la Macedonia. Probabile che i servizi di Skopje abbiano registrato attività di riflesso. Si sa, infatti, che quando l’Uçk kosovaro fu costretto dagli accordi di Kumanovo a sciogliersi, il suo arsenale non fu consegnato alla Kfor – come d’accordo –, ma venne invece sotterrato sui monti della Šareva Planina, in Macedonia appunto. L’Aksh fu posta a guardia dei siti. È verosimile che ora stia spostando le armi in vista di un conflitto. Dalla sede di Tirana del suo ufficio politico, l’ Fbksh – quello stesso che nel luglio 2006 dichiarò la mobilitazione di tutti gli albanesi residenti nella zona operativa n°2 – , Gafur Adili fa sapere che il gruppo “ha pronti tanti proiettili per i Serbi”. Il riferimento è ai Guardiani del Ponte, una formazione paramilitare che presidia la parte nord di Kosovska Mitrovica, e alla “Garda Cara Lazara”. L’idea è che, davanti ad una dichiarazione d’indipendenza unilaterale, Belgrado possa giocare sulla secessione delle aree abitate dai serbi e dare mano libera a queste squadre di nazionalisti, dopo averle infiltrate con uomini del Mup (il Ministero degli Interni) e dei corpi speciali. Copione già attuato in tutte le guerre combattute dalla Serbia dal 1991 in poi.
L’Aksh, insomma, entrerebbe in azione nel caso in cui la Serbia dovesse puntare sulla secessione del Kosovo settentrionale, in cui si trovavano le sovrastimate miniere di Trepča e le due sorgenti che portano l’acqua al resto della provincia.
A Belgrado danno per scontata l’indipendenza. Sanno che molti Paesi europei sono pronti anche a un riconoscimento unilaterale e che quello formale di tutta l’Ue molto probabilmente arriverà nel luglio del 2008, con l’inizio del semestre di presidenza della Francia, per non lasciare la patata bollente alla Slovenia.
Come risponderà Belgrado è ancora presto per dirlo. Potrebbe accettare suo malgrado l’amputazione territoriale e puntare su un risarcimento in termini di sconti nel processo di adesione all’Unione. Ma non è l’opzione che riscuote più consensi in termini di opinione pubblica. Facile che Koštunica, forte dell’appoggio di Mosca, cavalchi la questione consolidando il suo potere, attualmente in declino. Con lui s’irrobustirebbe anche l’obliquo apparato di sicurezza risalente al tempo del parastato mafioso di Milošević, che i rivali di Koštunica, il premier Đinđić (assassinato) e il suo delfino Tadić, non sono riusciti a eliminare. Per la Serbia sarebbe un passo indietro. E per i Balcani anche. Dal momento che se nel Paese più grande non riesce la transizione a una stabilità democratica consolidata, tutta la penisola è destinata all’instabilità. E se Belgrado dovesse decidere di rivalersi della perdita del Kosovo rivendicando la sovranità sulla Republika Srpska di Bosnia, si riaprirebbero una serie di microconflitti che risalirebbero l’intero continente, dalla Macedonia al Caucaso. Questa è l’ipotesi più spaventosa.