Oltre al governo cinese e ai manifestanti che gli si sono opposti, un altro attore ha preso parte alle proteste scoppiate alla fine di novembre in Cina contro la politica del cosiddetto “zero Covid”: i bot di Twitter. La strategia di lotta alla pandemia messa in atto nel Paese e fortemente rivendicata dal Partito comunista di Xi Jinping prevedeva misure molto rigide, che rischiavano di opprimere la società e affossarne l’economia. Questa è stata la causa del dilagare delle proteste, che dalle piazze reali hanno repentinamente invaso anche quelle virtuali dei social media con foto e video.

Nei giorni tra il 21 e il 30 novembre, però, i ricercatori dell’Atlantic Council’s Digital Forensic Research Lab hanno iniziato a notare qualcosa di anomalo: cercando i nomi delle grandi città cinesi, i risultati includevano moltissime immagini suggestive e post pensati per pubblicizzare servizi di escort. Quella di oscurare alcuni contenuti destinati alla soppressione attraverso l’uso di spam provenienti dai cosiddetti “bot”– ovvero degli account automatizzati – è una tattica abituale per il governo cinese, che più volte in passato vi avrebbe fatto ricorso per soffocare altre forme di dissenso. Questo ha indotto alcuni osservatori al sospetto che, ancora una volta, i vertici del Paese si siano serviti di strategie analoghe per ostacolare la circolazione di notizie riguardanti le proteste.

L’ipotesi, tuttavia, non è ancora confermata e necessita di prove più concrete: i bot che pubblicizzano contenuti sessuali legandoli ai nomi delle città agivano, infatti, sulla piattaforma già prima dello scoppio delle manifestazioni. La sola attività di spamming non rappresenterebbe, quindi, una prova sufficiente per accusare l’informazione governativa. Potrebbe trattarsi semplicemente di un caso di “hashtag hijacking” – letteralmente “dirottamento di hashtag” –: metodo con cui le organizzazioni, dopo aver individuato gli argomenti di tendenza, li incorporerebbero nei loro tweet per incrementare il traffico degli account.

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