Hamilton Hall è stata già teatro di barricate durante i movimenti del 1968 e nel 1985, quando un gruppo di studenti premette sulla dirigenza della Columbia per ottenere la rottura dei rapporti dell’università con il Sudafrica, sostenitore di un pesante apartheid nei confronti della maggioranza nera. E anche stavolta, Hamilton Hall è stata trasformata in un tempio dei diritti. Il palazzo, in cui si trovano i dipartimenti di studi classici, germanici e slavi, è stato rinominato dai dimostranti pro-Palestina e contrari alle relazioni tra l’ateneo americano e lo Stato di Israele, “Hind’s Hall” in memoria di Hind Rajab, la bambina palestinese uccisa dai raid israeliani su Gaza City, e lasciata morire per ore da sola senza alcuna possibilità di accesso all’ambulanza, impossibilitata a raggiungere il luogo del bombardamento. La piccola di sei anni era diventata protagonista cronache dello scorso mese di gennaio, per la telefonata in cui, spaventata, con davanti a sè i corpi senza vita dei suoi familiari, invocava aiuto alla Croce Rossa. Ironia della sorte, “Hind’s Hall” è stata la prima area del campus dalla quale la polizia newyorkese ha avuto accesso per sedare le proteste, dopo che la rettrice dell’università della Columbia, Nemat Shafik, è ricorsa all’intervento delle forze dell’ordine.

 

Columbia 1

Nell’ateneo newyorkese, l’accampamento, prima localizzato nel cortile principale dell’università, adesso smantellato, era stato organizzato dall’associazione ebraica a supporto della Palestina Jewish Voice for Peace, insieme a Justice for Palestine e Columbia University Apartheid Divest, un insieme di collettivi studenteschi. «La Columbia è l’università più prestigiosa di New York, accoglie studenti da ogni parte del mondo, tra i quali, negli anni Ottanta, l’ex presidente Barack Obama. Ciò che succede in questo ateneo cattura sempre l’attenzione e ha una risonanza internazionale anche sui media. Credo che proprio per questo il movimento pro-Palestina ha sostenuto sin da subito gli studenti che protestavano». Così racconta Sacha Biazzo, studente della scuola di giornalismo della Columbia e nostro ex allievo del Master in giornalismo dell’università Cattolica che, insieme ai colleghi, ha un occhio attento sugli eventi interni al campus, da cui sarebbe formalmente esclusa la stampa. Una cinquantina di tende, forse un centinaio, sparse nel cortile principale; ragazzi ebrei e musulmani, da più di una settimana, almeno all’interno del campus, convivono pacificamente, si confrontano e, in molti dei casi, pregano insieme, mostrando un atteggiamento di unità pur nelle differenze.

Le rivendicazioni degli studenti in tutte le università americane e da parte di tutti i collettivi della Columbia stessa sono simili: interrompere le relazioni che la Columbia intrattiene con le multinazionali di proprietà israeliana. Questo tipo di boicottaggio, se esteso a macchia d’olio nei restanti atenei, comprometterebbe il profitto delle imprese, costringendo i proprietari a far leva sul governo israeliano per portare a termine il conflitto. «Questo non è possibile. La rettrice, Nemat Shafik, ha comunicato alcuni giorni fa, che l’università non può fare a meno degli investimenti delle grandi corporations appartenenti a famiglie di origine ebraica. Come si può rinunciare ai dollari di Google o, ancor di più, ai dollari del gruppo Meta guidato Mark Zuckerberg?»: traspare critica e amarezza nelle parole di Francesca Maria Lorenzini, un’altra allieva della scuola di giornalismo dell’ateneo americano. «La situazione una settimana fa era differente: la protesta contava alcune centinaia di studenti, ora cresce in maniera esponenziale. Ieri i dimostranti non hanno rispettato l’ultimatum di sgombero. Ci sono già stati diversi arresti negli ultimi giorni. Tuttavia, un’e-mail della rettrice ha scongiurato un intervento ulteriore della polizia. La situazione è certamente imprevedibile». La previsione è stata disattesa: intorno alle 23:30 di ieri, centinaia di agenti in assetto antisommossa sono entrati in azione. La polizia ha fatto irruzione dalla finestra al secondo piano della Hamilton Hall. L’edificio è stato sgomberato e ci sono stati un centinaio di arresti. Nelle ultime ventiquattro ore le autorità newyorkesi hanno arrestato oltre trecento persone.

Columbia 1968

 

 

 

 

 

 

«La situazione in questo modo si complica: sembra di essere tornati nel Sessantotto, quando per placare le proteste studentesche si faceva intervenire la guardia nazionale». Così commenta le ultime ore la docente di Teoria politica, Nadia Urbinati, che dal 1996 insegna nella prestigiosa università americana.  Le sue parole confermano quanto asserito da Lorenzini: «È un peccato che non si riesca a dialogare con la rettrice: la situazione tutto sommato era sotto controllo. Io ho sempre frequentato e alcune reazioni mi sono sembrate eccessive. Serve il dialogo tra le parti. I veri problemi fino a pochi giorni fa succedevano all’esterno dell’ateneo. Diversi gruppi hanno cercato di infiltrarsi nell’università. Tra questi anche il gruppo neofascista dei Proud Boys, che si sono resi responsabili di disordini e atti di violenza».

columbia police 2 (1)Le proteste riguardano tutit i campus americani, non solo la Columbia. Anche alla UCLA di Los Angeles, in California, è intervenuta la polizia, sgomberando un accampamento simile a quello newyorkese, dopo che l’amministrazione dell’università lo aveva dichiarato illegale. Le forze dell’ordine sono intervenute per ripetuti fenomeni di violenze tra le fazioni dei dimostranti. Avvenimenti simili hanno avuto luogo in molti degli atenei del Paese; tra questi, il City College of New York, la Virginia Commonwealth University, ma anche nelle università del New Mexico, dell’Indiana, di Chicago e alla George Washington. Le manifestazioni hanno toccato anche college minori, come l’università di Tulane, vicino a New Orleans, dove la polizia ha effettuato quattordici arresti nei confronti di attivisti non frequentanti l’istituzione di istruzione superiore più due studenti. «Le persone che hanno aderito alle proteste sono molte più di quanto previsto», commentato uno studente della Tulane, Ben, portavoce della protesta. «Abbiamo in programma di stare qui finché l’università non deciderà di fare qualcosa o di arrestarci».

Questione focale è la presenza o meno, in seno a queste proteste, della componente antisemita. Slogan come “from the river to the sea” lascerebbero poco spazio all’interpretazione, ma in realtà nel campo non avrebbero avuto luogo episodi di discriminazione nei confronti degli studenti ebrei. La presenza di collettivi come Jews for Peace rafforzerebbe questa tesi: «Molte delle proteste che sono avvenute a New York negli ultimi tempi sono state sostenute da organizzazioni ebraiche, tra cui alcune di Brooklyn», spiega Lorenzini. «Secondo altre associazioni, però, gli ebrei non si sentirebbero più al sicuro all’interno dell’università. Le anime all’interno della protesta sono molto diverse e lo scopo è attirare l’attenzione nei confronti di ciò che sta succedendo a Gaza», afferma Biazzo. «In questo contesto, gli episodi più controversi non avvengono nel campus, dove la situazione è abbastanza controllata e pacifica, bensì all’esterno, dove succedono gli episodi più violenti, che sono alimentati non da studenti, ma da cittadini abbarbicati ai cancelli». Nelle notizie, il tutto confluisce, però, in un generico magma descritto come ‘proteste alla Columbia’. Si è comunque verificato un caso interno di antisemitismo, che ha coinvolto un visiting professor il quale aveva scritto su Facebook di essere a favore della resistenza, qualunque essa fosse: Hezbollah, Hamas o Jihad islamica. La rettrice Shafik, durante la sua audizione di fronte alla Commissione per l’educazione a Washington, aveva dichiarato che questo professore non avrebbe lavorato più in Columbia.