A Beirut, capitale del Libano e culla di una lingua fatta di arabo, inglese e francese, quaranta studenti dell’American University si sono messi a lavoro per tentare di disegnare una mappa linguistica della città e offrire un’istantanea della poliglossia che, ormai da tempo, denota il suo tessuto sociale e urbano. Il progetto parte dalla raccolta di una serie di fotografie e di calligrafie esposte nei luoghi pubblici, dai cartelli stradali alle insegne dei negozi, dai manifesti pubblicitari ai graffiti, e procede con la catalogazione del materiale in base a criteri come la posizione geografica, le lingue e i caratteri usati, il significato dei singoli termini e gli eventuali errori ortografici.

Vista l’eterogeneità della sua componente cittadina e l’internazionalizzazione che, anno dopo anno, la città si trova a vivere, si può pensare di replicare l’esperimento a Milano? L’alternarsi di registri linguistici che, spesso, caratterizza le sale d’attesa degli uffici, la stazione della metro o le strade può suffragare un’ipotetica poliglossia anche nella città meneghina?

Secondo il professor Vincenzo Matera, docente di Antropologia linguistica all’Università Bicocca, “A  Milano non si può parlare di poliglossia in senso lato perché le persone che la abitano non sono parlanti di più lingue, almeno non in modo fluente e con quelle modalità di slittamento da un codice all’altro, riscontrabili in altri contesti urbani”. Senza dubbio, le comunità di filippini, egiziani, rumeni, cinesi, per citare le più numerose, rendono la città un “faro di diversità culturale e linguistica a contatto ravvicinato ma non ancora così ravvicinato da innescare mescolanze di un certo peso”.

Nel delineare un quadro sintetico della situazione linguistica della città, Matera è lapidario nell’affermare che “A Milano si parla l’italiano e il dialetto è quasi del tutto scomparso mentre, in contesti di formazione e di ricerca, come master o corsi di laurea interamente in lingua, si predilige l’inglese”“a Milano si parla l’italiano e il dialetto è quasi del tutto scomparso mentre, in contesti di formazione e di ricerca, come master o corsi di laurea interamente in lingua, si predilige l’inglese”. La situazione cambia leggermente quando ci si sposta in quartieri come via Padova e via Paolo Sarpi, dove il risuonare di altre lingue è un dato evidente ma si tratta, comunque, di idiomi che “non fanno parte del tessuto comunicativo della città, piuttosto svolgono essenzialmente una funzione identitaria e si radicano in un contesto preciso”. Ed è proprio per questo che, secondo il professore, non ci sono le basi per parlare di bilinguismo o trilinguismo in città, data l’assenza di parlanti in grado di passare simultaneamente da una lingua all’altra, e neppure di vera e propria contaminazione linguistica tra l’italiano e le cosiddette “lingue di migrazione” (in questa direzione, un minimo contributo sembra darlo il cibo: basti pensare a tutti quei termini che indicano piatti stranieri e che ormai sono entrati nell’uso), alla stregua di quella riscontrabile, ad esempio, tra italiano e inglese. Anche se in alcuni posti, oggi, è possibile vedere cartelli in varie lingue, rimane ancora una certa chiusura tra comunità, che “continuano a coltivare una lingua specifica al loro interno e a ripiegare sull’italiano per le comunicazioni con l’esterno”.

Secondo il professor Matera l’idea di una mappa linguistica di Milano sarebbe “un’interessante ricognizione, anche se per tutti i motivi prima elencati non darebbe risultati in termini di straordinarietà”. Prima di una vera e propria caratterizzazione di Milano come città poliglotta ci vorranno tempo e politiche scolastiche mirate a valorizzare l’affascinante bagaglio linguistico dei popoli migranti: una ricchezza da non disperdere e una diversità di cui farsi forti.