Secondo un vecchio adagio, spesso attribuito al drammaturgo ateniese Eschilo, «la prima vittima della guerra è la verità». In un mondo costellato da conflitti come raramente accaduto prima nella storia, è più che mai fondamentale che i reporter di guerra siano testimoni imparziali dei fatti che raccontano, puntando sempre al racconto del vero. È questo, del resto, ciò che da sempre si propone di fare anche il giornalismo investigativo. Al Festival Internazionale del Giornalismo che si è da poco concluso a Perugia questi due ambiti della professione sono stati tra quelli che hanno trovato maggior spazio, a dimostrazione di quanto il nostro presente abbia bisogno di verità.

Il racconto delle guerre attraverso gli occhi degli inviati

La necessità di non perdere mai di vista la verità nel racconto dei contesti bellici è stata uno dei temi di discussione del panel L’arte del reportage di guerra. Al dibattito hanno partecipato Jeremy Bowen, international editor di BBC News, e Ron Haviv, fotogiornalista e filmmaker, fondatore dell’agenzia VII Photo Agency. Le loro carriere si sono incrociate più volte nel corso dei decenni, la prima nel 1992 a Sarajevo, quando entrambi erano impegnati a documentare le guerre in una Jugoslavia ormai in dissoluzione.

Haviv ha raccontato quanto sia stata importante la fotografia in quel contesto: «Mentre mi trovavo in Bosnia ho assistito ad atrocità indicibili, di fronte alle quali mi sono sentito spesso impotente. Allora ho detto a me stesso che, se non fossi stato in grado di salvare persone, avrei dovuto assicurarmi di uscirne almeno con delle prove fotografiche». I suoi scatti si riveleranno poi fondamentali, una volta finito il conflitto, come prove in vari processi per crimini di guerra sia in Serbia che al tribunale internazionale dell’Aia. «A volte una foto può prendere vita propria, vivrà per sempre e mostrerà cosa è successo».

Jeremy Bowen, anch’egli testimone oculare di molti dei massacri perpetrati in quei terribili anni, è stato chiamato a testimoniare alla corte dell’Aia in quattro diversi processi. Reporter di lunghissimo corso, Bowen ha iniziato la sua carriera di inviato di guerra per la BBC nel 1989 in El Salvador. Da allora ha documentato conflitti in ogni angolo del mondo, dall’Iraq alla Libia, dallo Yemen all’Ucraina passando per Israele e Palestina. La verità è sempre stata la bussola del suo racconto: «Sono un giornalista, non un attivista, e anche se ho opinioni forti su molte cose il focus del mio lavoro non deve mai essere quello che penso o come mi sento ma solo quello che sta succedendo. L’imparzialità per me sta proprio nel mettere da parte le proprie opinioni per capire e far capire ciò che accade».

Gli eventi degli ultimi anni non hanno fatto altro che rafforzare in Bowen questa convinzione: «Viviamo in un momento storico molto difficile, probabilmente il più difficile in termini di sconvolgimenti politici dagli anni Venti e Trenta del secolo scorso. In un simile contesto, il ruolo del giornalismo è molto importante. Bisogna dare alle persone la conoscenza di ciò che sta accadendo, così che possano formarsi una propria opinione ed essere indipendenti. E per questo a volte è necessario dire loro anche cose che non vorrebbero sentirsi dire».

Il mestiere di reporter di guerra, per quanto appassionante, espone comunque chi lo svolge a rischi per la propria incolumità fisica ma anche mentale. Lo sa bene Fergal Keane, come Jeremy Bowen corrispondente della BBC, che a Perugia ha raccontato nel panel Le cicatrici del reportage di guerra il disturbo post traumatico da stress che l’ha colpito. Gli orrori delle guerre che ha documentato negli anni, uniti ai traumi vissuti durante l’infanzia in Irlanda, l’hanno fatto cadere nella depressione e nell’alcolismo. Il PTSD gli è stato diagnosticato nel 2008, ma solo nel 2020 ha deciso di prendersi una pausa per curarsi. Nonostante questa esperienza, Keane non si sente di scoraggiare i giovani a intraprendere la strada del giornalismo di guerra: «Se si desidera davvero fare questo lavoro, è giusto inseguire il proprio sogno. Inoltre, credo che i ragazzi di oggi abbiano un’educazione di gran lunga migliore rispetto alla mia generazione per quanto riguarda la salute mentale e strumenti migliori per affrontare ciò che ho vissuto io».

Tra gli esponenti italiani più in vista di questa nuova generazione di giornalisti c’è Cecilia Sala. Voce del podcast Stories e inviata in numerose aree di crisi, la Sala ha partecipato al panel Un mondo in fiamme insieme allo scrittore Paolo Giordano, che negli ultimi anni ha realizzato vari reportage per il Corriere della Sera. I due hanno condiviso le rispettive esperienze, concordando sul fatto che «la partecipazione alle guerre non è equanime. Alcune le sentiamo vicine, altre lontanissime e per questo ce ne disinteressiamo». E anche quando un conflitto richiama l’attenzione del grande pubblico per la sua prossimità, alla lunga rischia di assuefare e venire a sua volta dimenticato. Lo si è visto chiaramente, ha ricordato la Sala, «in Ucraina, dove la conta dei missili con il passare del tempo ha perso senso e significato». Una soluzione può essere rappresentata dalle storie: «Mentre le crisi stancano, le storie delle persone non smettono di interessare e per questo sono uno strumento di cui non possiamo fare a meno».

Il ruolo del giornalismo indipendente

Negli ultimi anni ci siamo talmente tanto concentrati sul giudizio di ciò che non riteniamo sia un giornalismo equo ed imparziale, che ci siamo dimenticati di guardare oltre i confini e di valorizzare le nuove realtà che stanno nascendo. Dalla repressione nascono le rivolte ed è proprio dalla necessità di conquistare e tutelare la libertà di espressione che stanno sorgendo nuove realtà giornalistiche indipendenti che meritano di essere valorizzate, perché è solo attraverso il loro lavoro – soprattutto in contesti dove vigono regimi totalitari – che possiamo analizzare in maniera critica ciò che accade. In questi anni, decidere di uscire dalle logica del mainstream, inglobata sempre più spesso in grandi consorzi di aziende che decidono le linee editoriali delle principali realtà giornalistiche mondiali, è una scelta audace e in alcuni casi può essere sacrificante, sia in termini economici che in termini di sicurezza. A Perugia, Magzine è entrata in contatto con diverse realtà indipendenti: dall’Afghanistan alla Siria, dal Libano alla Russia.

In Afghanistan per esempio, da quando il potere è passato in mano ai talebani nell’agosto del 2021, la possibilità di costruire un futuro improntato sulla libertà e l’equità di stampa è sfumata e il paese è diventato uno dei più pericolosi al mondo per chi sogna di diventare giornalista. In questo contesto però, Amu TV, un canale televisivo internazionale per l’Afghanistan con sede a Washington DC, è riuscita a distinguersi come una fonte credibile ed indipendente per il popolo afghano. Lotfullah Najafizada, fondatore e amministratore delegato di Amu TV, parla delle sfide operative e delle strategie da adottare in futuro per continuare a garantire contenuti equi e  liberi. «L’obiettivo che dobbiamo continuare a perseguire è quello di voler informare il popolo afgano. Avendo però la nostra base a Washington DC, non è semplice riuscire a svolgere un lavoro di squadra tra i giornalisti che sono in esilio e coloro che svolgono il lavoro sul campo in anonimato.»  Per lui e il suo team è fondamentale assicurarsi che i collaboratori in Afghanistan siano al sicuro, «stiamo elaborando nuove strategie, soprattutto in vista delle politiche sempre più stringenti che i talebani stanno adottando sulla censura in questo senso. Non siamo ancora al livello dell’Iran o della Corea del Nord ma per un talebano, chi decide di fare giornalista va incontro alla morte.»

Durante la settimana, Magzine ha incontrato anche Mohammed Bassiki co-fondatore e amministratore delegato di SIRAJSiria Investigative Reporting for Accountability Journalism – un’unità che si occupa di formare giornalisti siriani sui metodi da utilizzare per fare investigazioni sul campo. «Uno degli obiettivi principali di SIRAJ, è quello di far luce su questioni di corruzione, di violazioni dei diritti umani e sui fallimenti della politica siriana, amplificando le voci delle comunità emarginate attraverso collaborazioni sia locali che internazionali» conclude Bassiki evidenziando quanto sia importante lavorare sulla cooperazione internazionale tra giornalisti affinché sia possibile amplificare la voce di chi crede nella forza dei media indipendenti soprattutto in contesti, come quello siriano, dilaniati da decenni di conflitti e lotte per il controllo geo-strategico del territorio.

Un’altra realtà che sta acquistando sempre più visibilità, soprattutto tra le nuove generazioni, grazie alle ottime modalità comunicative e ai contenuti selezionati è MEGAPHONE, un media indipendente con sede a Beirut in Libano. Abbiamo parlato con Jean Kassir, co-fondatore della piattaforma: «il principale obiettivo di Megaphone è quello di far assumere le giuste responsabilità a coloro che detengono il potere in Libano ma anche quello di amplificare la voce di chi è invisibile ai media. Noi parliamo di comunità LGBT, di rifugiati, di migranti e di tutti coloro che vengono de-umanizzati o stigmatizzati dal nostro regime. Questo obiettivo è condiviso da tutti i media arabi indipendenti che stanno nascendo negli ultimi anni.»

Un caso di particolare rilevanza in questi ultimi anni infine, riguarda un media indipendente russo: MEDUZA. Galina Timchenko, co-fondatrice e amministratrice delegata della testata, svolge il suo lavoro lontana dalla Russia. Vive in Germania ma è giornalmente a contatto con una serie di giornalisti che vivono in Russia e che rischiano di essere incarcerati per il solo fatto di collaborare con lei e con la testata che, da gennaio del 2023, è stata messa fuori legge ed è considerata dall’autorità russa un’organizzazione illegale. Nonostante le minacce e le intimidazioni subite, le intercettazioni e la costante esposizione dei suoi collaboratori, Galina continua a svolgere il suo prezioso lavoro, consapevole di dover combattere un sistema autoritario e di doverlo fare per la libertà tutto il popolo russo. 

Il giornalismo indipendente è la spina dorsale delle democrazie ma lì dove la libertà di stampa non è tutelata, decidere di trasmettere informazioni, indipendentemente dalle conseguenze più o meno gravi che potrebbero esserci, è un’impresa coraggiosa che merita di essere valorizzata, ascoltata e letta.

Le donne nelle zone di guerra: sicurezza, rischi, resistenza

Un filo invisibile unisce le reporter Olga Rudenko, Youmna ElSayed e le attiviste che, dall’Europa al Medio Oriente in fiamme perseguono un duplice obiettivo: la salvaguardia della verità e il riconoscimento di diritti spesso negati.

Olga ha deciso di fondare la start up mediale The Kyiv Independent nel novembre 2021, ribellandosi con alcuni colleghi di redazione del Kyiv Post a un direttore troppo poco indipendente per pubblicare i loro articoli di critica contro la presidenza Zelensky. La testata aveva solo tre mesi quando il paese è stato invaso dai russi e lei si è trovata, da direttrice, a orientare il racconto di uno scenario imprevedibile. «La difficoltà maggiore è stata convincere prima di tutto i lettori- finanziatori che una donna può guidare un organo di informazione. Spesso non ti prendono sul serio solo perché sei giovane e non maschio» ha ricordato nel corso “European Press Prize” al Festival di Perugia, dove è stata premiata tra i migliori reporter del vecchio continente per un’inchiesta sulla cattiva condotta dei soldati della Legione Internazionale ucraina. Il lavoro della sua squadra ha fruttato negli ultimi due anni la scoperta dei lati oscuri dei vertici del paese, compreso il cosiddetto “Caso Bithus” sullo spionaggio governativo dei cronisti per opera dei servizi segreti. Le scomode verità emerse hanno esposto pericolosamente la stampa libera locale alle accuse di tradimento mosse dallo stato e alla legge marziale, mentre i suoi attori diventavano bersaglio non solo degli attacchi russi: «raccontare sul campo è sempre più complicato, soprattutto per le donne, che saranno sempre più a rischio degli uomini». 

Lo stesso coraggio è servito a Youmna per decidere tra il suo mestiere da corrispondente per Al Jazeera English e i suoi quattro figli quando le bombe israeliane hanno iniziato a cadere su Gaza. I giornalisti palestinesi nella striscia vivono senza più redazioni, in tende con nient’altro se non il proprio cellulare ma non possono arrendersi. Anche se ne sono già stati uccisi più di 130, anche se manca l’appoggio della stampa internazionale che si è rassegnata a non poter entrare nell’area. «Non ho studiato giornalismo – confessa nel corso del dibattito “Coprire Gaza, nonostante gli ostacoli” –  eppure ho fatto quanto ho potuto finché ho potuto. Siamo obiettivi diretti e, nonostante lo rimpianga, lasciare Gaza per me era l’unica scelta possibile per continuare a parlare di tutto questo. Essere una reporter o fare la madre? Dovevo salvare la vita dei miei bambini».

La sicurezza dei giornalisti e specialmente delle giornaliste è stato il tema oggetto del panel presentato dalla European Federation of Journalists, in collaborazione con l’osservatorio  OSCE sulla libertà dei media europei, per presentare i nuovi protocolli atti a contrastare la violenza di genere online. Tra le iniziative, spicca per importanza il progetto “Safety of Female Journalists online”, che punta a supportare e proteggere le operatrici dell’informazione: «Gli attacchi in rete sono il principale strumento utilizzato per intimidire i cronisti investigativi e i volumi continuano a crescere. Ma per le donne questi attacchi assumono la forma di vere e proprie molestie sessuali» ha dichiarato la presidente della federazione Renate Schroeder. «Per questo garantiamo loro sostegno legale, informatico e le equipaggiamo con una tool box di misure specifiche da adottare in quei casi, cercando di accrescere la loro consapevolezza in proposito» ha aggiunto al riguardo la ricercatrice OSCE Seija Jusufovic.

La narrazione delle guerre raffigura le donne come vittime, persino quando raccontare i conflitti è il loro compito. Il genere femminile però potrebbe giocare un ruolo chiave se solo le sue potenzialità non facessero paura. Come in Iran, dove le proteste del movimento “Donna, Vita, Libertà” cominciate dopo la morte di Mahsa Amini hanno dato il via a una stagione di disobbedienza civile generalizzata contro le imposizioni della Repubblica Islamica. Secondo la giornalista Luciana Borsatti, «Ha inaugurato una battaglia per i diritti di tutti, per la libertà delle nuove generazioni. Non è una semplice crociata contro il velo nel segno della modernità occidentale, che tra l’altro non ha impedito a molte donne iraniane di svolgere il proprio ruolo nello spazio pubblico». Chi è dimenticato sono invece le donne afghane e le lotte che le hanno riportate nelle piazze contro i talebani per affermare ciò che erano riuscite a conquistarsi in venti anni di libertà.

Le donne in guerra sono corpi estranei, i conflitti hanno sempre un vestito maschile nell’immaginario comune, dice Amalia de Simone, che scrive soprattutto di quelle guerre di mafia che segnano il nostro Paese e di cui spesso ci si dimentica. A rivendicare il valore del racconto femminile ci sono altre tre giornaliste di grande esperienza con lei: Marta Serafini, Francesca Caferri e Francesca Volpi. Raccontano degli sguardi dall’alto al basso, della supponenza e degli “gli uomini vengano, la signorina può restare qui”. Ma soprattutto spiegano come parlare della guerra: senza piegarsi e aderire alla narrazione del potere, senza ridurre tutti a eroi o nemici. Il dovere di reporter è mostrare il lato umano, le storie delle persone coinvolte e non fermarsi solo all’arido lato tecnico fatto di nomi e numeri di armi e munizioni. bisogna guardare dietro, dentro, nel profondo per capire davvero le situazioni e le conseguenze di ciò che accade. Queste donne, come tante altre, non sono corpi estranei alla guerra, la conoscono e la vedono da tanti anni e pazienza se i miliziani dei taliban non parlano e non le guardano, “siamo noi donne a poter entrare nelle case e se un soldato non mi rivolge la parola sarà poi sua moglie a raccontarmi chi davvero è” dice Francesca Caferri.

La resistenza sta in ogni gesto. Resistenza è un ciuffo di capelli fuori dal velo, sognare un futuro migliore, studiare, a volte è persino esistere. Fatima Haidari è giovane ma ha lo sguardo di chi ha vissuto mille vite. è afghana, ma vive in Italia dal 2021. Quando le chiedono se le manca la sua terra le si incrina la voce. Ha dovuto lasciare tutto e partire perché essere di etnia hazara significa essere emarginati, perché è donna e non avrebbe potuto studiare all’università come invece fa ora, perché era un’insegnante nelle scuole femminili clandestine e quindi un bersaglio del regime talebano. A fianco a lei siede Lucia Capuzzi, che per Avvenire ha realizzato il cortometraggio The dreamers: Afghan women’s resistence. Non si vede il viso di nessuna di queste donne e bambine, ma bastano le loro voci per capire la determinazione che le spinge ad aprire, gestire o frequentare le scuole segrete. Matematica e inglese, lettere, numeri e formule contro le armi e le umiliazioni di un regime violento che non permettere alle bambine di studiare dopo la scuola elementare o esercitare alcune professioni. Silenziose e coraggiose, smentendo anche un’opinione pubblica internazionale che le vuole sottomesse e arrese, Fatima dice che queste donne “sono cambiamento, vogliono cambiare un inferno in paradiso” lottando per qualcosa che sarebbe un loro diritto, senza accettare il ruolo di vittime. Dal Canada è collegata Zahra Nader che ha fondato e dirige il giornale indipendente Zan Times che attraverso la voce delle donne afghane tratta di diritti, ambiente e comunità LGBTQ+. “produrre conoscenza” è l’obiettivo dei media, aiutare tutti a non vedere il mondo solo attraverso la propria prospettiva. La narrazione che vuole le donne afghane schiacciate non le rappresenta fino in fondo. Non sono sconfitte e indebolite, sono fiere e indomite, nonostante le imposizioni e i divieti. C’è chi infrange le regole e chi le sfrutta a proprio vantaggio, come le singing sisters che violano le leggi cantando inni alla resistenza celate dai burqa voluti dallo stesso regime. Fatima ha gli occhi lucidi ma la testa alta: “Sogno un Afghanistan dove tutti possano studiare, in cui non si lapidino le donne e una vedova non debba vendere una figlia per sfamare gli altri, in cui non si venga uccisi per l’etnia, la religione o la cultura. Serve uno sforzo collettivo interno e internazionale, solo così il sogno si realizzerà”.

 

Tutela delle fonti e libertà di informazione: i pilastri del giornalismo investigativo

La tutela delle proprie fonti e la ricerca del delicato equilibrio tra presunzione di innocenza e diffusione delle notizie considerate di interesse pubblico sono tematiche centrali del giornalismo investigativo: si tratta di questioni delicate e complesse, in cui entrano in gioco interessi diversi.

Proprio su questi temi si è incentrata l’attenzione dell’opinione pubblica dinnanzi al caso che ha interessato i giornalisti del Domani, accusati di concorso in accesso abusivo reiterato e rivelazione di segreto per aver rivelato la posizione di conflitto di interessi in cui si trova il ministro della Difesa Guido Crosetto per i suoi rapporti con Leonardo, la principale industria della difesa d’Italia. Una vicenda che è stata etichettata come “dossieraggio” ma che Emiliano Fittipaldi, direttore del quotidiano, ci tiene a qualificare come nettamente diversa: «Si parla di dossieraggio nel momento in cui delle informazioni, vere o false che siano, non vengono pubblicate per poter danneggiare o ricattare un soggetto o un gruppo di soggetti, ma in questo caso è avvenuta una pubblicazione di notizie basate su documenti finanziari certi». 

Un’ulteriore prova della veridicità documentale risiederebbe proprio nel fatto che il ministro non abbia potuto appellarsi al reato di diffamazione, ma abbia dovuto ricorrere a richiedere alla Procura di Roma di verificare come questi dati così precisi fossero venuti nelle mani del Domani. Si è così giunti all’individuazione della fonte dei documenti nel magistrato Pasquale Striano della Direzione nazionale antimafia. Un metodo che secondo Fittipaldi minerebbe sia una futura collaborazione di eventuali fonti, intimidite dall’eventualità di poter essere svelate e subire ripercussioni per vie traverse, nonché la reputazione stessa del suo quotidiano. E ciò comporterebbe un grave pregiudizio della libertà di stampa, specie quando come in questo caso si basa su notizie evidenti, per le quali non sussiste alcuna ragione che debba disincentivarne la pubblicazione.

Nel caso specifico, poi, la difesa di Striano sostiene che non sia avvenuto alcun accesso abusivo alle banche dati da cui sono stati estratti i documenti, per cui la notizia sarebbe il risultato di un’attività che il magistrato era pienamente legittimato a compiere. Ma, anche così non fosse, ci sono numerose sentenze della Corte Cedu che evidenziano come il giornalista debba restare non imputabile anche nel caso in cui la scoperta della notizia sia avvenuta con la commissione di un reato.

Nello scenario ideale, gli organi di informazione dovrebbero essere liberi di poter svolgere il loro lavoro e la garanzia della veridicità di quanto diffuso dovrebbe risiedere nel metodo stesso degli organi di stampa. Dovrebbero svolgere un lavoro il più possibile completo e di qualità, nel tentativo di accertare il più possibile di quanto pubblicato e quindi di sentire il maggior numero di parti in causa prima di procedere alla pubblicazione.