“Sulle rive del Lario ho varie ville ma due mi occupano principalmente perché mi piacciono di più. Una posta sulle rocce […] guarda il lago; l’altra […] lo tocca. Così ho voluto chiamarle, la prima ‘Tragedia’ e la seconda ‘Comoedia’ – una perché è elevata su una tragica base, l’altra perché riposa graziosamente in una comica baia. Ciascuna possiede una sua particolare attrattiva. Una gode di una prospettiva ravvicinata, l’altra di una vista più distante. Questa vede una baia ricurva, l’altra ne domina due dalla sua posizione elevata. Lì una stradina diritta costeggia la riva con un’ampia visuale, qui un ampio terrazzamento scende dolcemente fino alla costa. Quella non sente le onde, questa le tocca. Da quella potete osservare i pescatori, da questa potete voi stesso pescare gettando l’amo dalla vostra camera da letto, e perfino dal proprio letto, come fosse una barchetta”.
Plinio il Giovane, nipote del Vecchio, era un grande frequentatore del lago di Como. Da una delle numerose epistole, capiamo che l’avvocato romano era proprietario di due ville, la prima delle quali si chiamava ‘Tragedia’, che è probabile si trovasse dietro Bellagio, dove si uniscono i due rami del Lario. La zona è ancora oggi rocciosa e boscosa, a tratti inquietante per la morfologia dai declivi impervi delle montagne che cadono a capofitto nel lago. Oltre queste cime, verso Est e Nord, le Grigne e le Alpi Orobie delineano da una parte la Valsassina, dall’altra la Valtellina, terre che la Storia e la letteratura non hanno ignorato. Si tratta dei territori della parte lecchese di cui anche Manzoni parla ne I promessi sposi, gli stessi che i lanzichenecchi dell’esercito imperiale del Sacro Romano Impero percorrevano nel 1630 scendendo dalla Germania, diretti verso il ducato di Mantova dove si combatteva la Seconda guerra del Monferrato, portando con sé la morte della guerra, e lasciandosi dietro il devasto e la peste. Molto prima, nel XII secolo, gli stessi luoghi erano stati teatro del conflitto decennale tra Como, alleato con l’imperatore della dinastia Sveva, Federico Barbarossa, e Milano, che aveva un avamposto alleato nell’isola Comacina, unico frammento di terra insulare del lago.
L’altra villa di Plinio era “Comoedia”, situata nel ramo piacente, con le ville e le rive gentili, radici di montagne verdi, alte ma morbide: è la gamba comasca, costellata di agglomerati abitativi caratteristici e, di questi tempi, di alberghi di lusso. Plinio usa un’espressione particolare, per indicare la collocazione della sua dimora: “comica baia”. Le baie sono insenature che si addentrano nella costa ed è probabile che quella di cui parla l’avvocato fosse Lenno, che si dà il caso ha proprio una frazione denominata “Villa”, forse per retaggio di una casa importante che lì si trovava.
Il paese di Lenno, oggi sotto il comune di Tremezzina, viene chiamato così dai coloni greci dell’isola di Lemnos che nel I secolo a. C., dalla Nova Comum cesariana, risalgono le coste, dove ci sono i passi verso la terra delle popolazioni germaniche. Le genti del lago non sono difficili da addomesticare e presto il centro diventa un municipio romano di peso, tanto da ospitare il celebre nipote dell’autore della Naturalis Historia. A Lenno, Plinio il Giovane è il committente di un tempio dedicato a Cerere ed Eleusina. Percepiamo la notizia da una lettera in cui il legale romano scrive che, tra la vallata e la montagna, ha edificato questo luogo sacro; il che fa supporre che la statua della Beata Vergine del Soccorso, il santuario costruito dove doveva trovarsi la cappellina di Plinio, a cavallo tra Lenno e Ossuccio, possa essere di origini pagane.
Lo confermerebbero lo stile e la posa della donna, che ricorda molto una guerriera, più che la Vergine. Leggenda vuole che una contadina l’avesse trovata tra i rovi e che, allertati gli uomini, la Madonnina fosse stata portata nella chiesa di Sant’Eufemia, a Ossuccio. Il mattino dopo, la statua era tornata nella posizione precedente. Maria Vergine voleva lì la sua chiesa: di qui il santuario. Nei filmati d’epoca, è possibile vedere processioni religiose molto partecipate, cortei che si allungano per tutto il percorso che si snoda sul Sacro Monte di Ossuccio, verso il santuario, e che prevede quattordici tappe corrispondenti a quattordici cappelle. Ciascuna di esse, edificate in età barocca dalla scuola intelvese, maestra negli stucchi, rappresenta un momento della vita di Gesù, dall’Annunciazione dell’Arcangelo Gabriele a Maria all’Incoronazione della Vergine, nel santuario. Dall’esterno della chiesa, il panorama è sopraffino. Partendo da Nord, a sinistra, si ammirano le montagne della Valsassina, dalla cresta del Legnone al maestoso e possente profilo della Grigna. In basso, ai piedi dei declivi, il promontorio di Bellagio, dai pochi metri di altezza, si sviluppa verso Sud nelle Prealpi comasche, che comprendono vette come il Monte San Primo. Il lago riempie il fondale di questo spettacolo. Se si volta lo sguardo a destra, l’acqua prosegue verso Argegno, prima di curvarsi in direzione di Como e sparire dietro le alture.
La villa di Plinio il Vecchio viene meno nel corso degli anni per degrado. Dalle ricerche archeologiche fatte dopo la metà dell’Ottocento, dalla zona prospicente la frazione Villa vengono riportati alla luce dei reperti, ora collocati al Museo di Como, tra cui un mascherone, e cioè una bocca della verità. Qualcosa rimane nella cripta di Lenno, collocata sotto la chiesa, come i capitelli recuperati dalla dimora che sono ora diventati i sostegni delle colonne.
La cripta, che si trova nella parte del ‘caledarium’ delle terme di Plinio (la sauna dove si sudava, al contrario del ‘frigidarium’) diventa il cuore del paese dopo il 480, grazie alla predicazione di Sant’Abbondio. Siamo in un periodo in cui cristianesimo e paganesimo, insieme ai culti delle popolazioni germaniche, convivono in un rapporto contrastante. Sempre nel 480 viene deposto quello che alcuni storici considerano l’ultimo imperatore dell’Impero Romano d’Occidente, Giulio Nepote. Non manca molto all’inizio del regno longobardo nel Nord Italia. Dalla cripta, un luogo piccolo e riservato, pensato per raccogliere poche persone, deriva la chiesa superiore, oggi dedicata a Santo Stefano, patrono di Lenno, insieme al battistero ottagonale di cui si conserva immacolato l’esterno romanico. Le sue otto facciate indicano i sette giorni della creazione insieme all’ottavo, adibito alla resurrezione. Nelle pareti interne non sopravvive nulla dei disegni e dei brani a cui gli amministratori della fede ricorrevano per insegnare il catechismo. Ma le pietre del battistero sono vive, quindi incastrate, non cementate, e rimandano al popolo di Dio.
Nel corso dei secoli, mentre la Storia macina re e guerre, la tecnologia bellica si sviluppa e gli spagnoli scoprono le Americhe, la vita di Lenno si irradia lungo e da via Soccorso, dove si trova il corso d’acqua che alimenta gli opifici della zona a forza idraulica, come mulini, filande, filatoi. Nei grandi prati si coltivano le olive, sul lago abitano i pescatori. Solo attorno all’Ottocento la zona prospicente all’acqua, la stessa in cui villeggiava Plinio, diventa prestigiosa, meta dei grandi artisti europei come Goethe che, nei loro Gran Tours esplorativi verso l’Italia, toccano le rive lacustri. La passeggiata, inclusa nella più ampia Greenway – un lungo percorso che perimetra la riva occidentale del lago –, costeggia tutto il golfo, dal confine con Mezzegra al Lavedo, il promontorio di Lenno, dalle chine a tratti precipitose. Il nome deriva forse dal latino Labidus e Labes, “precipizio”.
Proprio qui, negli anni Dieci e Venti del Novecento, è proprietaria di un ristorante la famiglia di Lorenzo Conti, ex impiegato di Enel, ora pensionato, ed ex consigliere e assessore in comune a Lenno negli anni Novanta: «Esiste un atto del 1912 in cui si legge che i miei nonni, Edoardo Luraghi e Teresa Botta (nella foto, a sinistra), avevano chiesto un prestito per l’attività del “Plinio”, nel quale si mangiava e si ballava». Luraghi e Botta sono due dei cognomi più diffusi della zona. «So che, al principio degli anni Trenta l’hanno venduto e hanno comprato una bella proprietà a Domaso, dove mia madre Raffaella Luraghi avrebbe incontrato mio padre, Antonio Conti, di Vendrogno, in Valsassina, che lavorava alla centrale idroelettrica di Gravedona». La storia di Conti, originario di Lenno, non lo vede tornare nel paese dei suoi antenati fino agli anni ’70, quando con la moglie decidono di venire a viverci. Tarcisio Luraghi, zio di Conti, l’uomo a destra nella fotografia, ha infatti lasciato in donazione la sua casa, situata in località Masnate, alla famiglia di Antonio.
Ora l’albergo Plinio si chiama villa Comoedia, nome che ancora una volta ritorna, insieme a quello del giusdicente romano. Si parla allora di un borgo di persone umili e, al massimo, piccolo borghesi. «Non c’erano famiglie nobili. Dacché io ricordi, l’unica mia conoscenza di sangue blu a Lenno è stata la contessa De Herra» spiega Donatella Lamberti, che è stata bibliotecaria a Lenno dal 1986 al 2004, nonché consigliere anziano e assessore al comune nel lustro 1975-1980. Dai suoi innumerevoli aneddoti, la contessa De Herra, che dà il nome all’attuale villa rosata nel golfo di Lenno, spicca per eleganza ed enigmaticità: era una donna aristocratica e sola, di origini spagnole, sempre vestita in maniera modesta, “come una suora”. «Mio padre era direttore dell’ufficio postale. Al mattino avveniva la prima distribuzione della posta, al pomeriggio la seconda, ma le postine tornavano a casa alle 15:00. Dopo quell’ora, d’estate, con mio fratello andavamo a consegnare gli ultimi telegrammi e io passavo sempre dalla contessa. Ad aprirmi era la sua dama di compagnia, una donna piccola e cicciottella. Questa si affacciava alla finestra: “Ah, Donatella, arrivo subito” diceva, ma ci metteva una vita per scendere le scale. Poi mi apriva il cancello e mi accompagnava all’interno. Ricordo che mi facevano paura le rampe buie. Al piano di sopra, trovavo la contessa. Era riservata, intelligente e acculturata, una benefattrice. Mi riempiva di doni, come cesti di frutta».
Processione funebre negli anni Trenta di Giorgio Muggiani, grafico e disegnatore pubblicitario milanese che realizzò l’attuale stemma dell’Inter. Il palazzo che si intravede è villa De Herra.
La De Herra rappresenta una nobiltà antica, opposta a quella più internazionale che si sussegue negli stessi anni a villa Balbianello, il gioiello di Lenno costruito alla fine del ‘700 dal cardinale milanese Angelo Maria Durini. Nel corso dei secoli, prima di finire nelle mani del conte Guido Monzino, famoso alpinista e imprenditore che la restaura portandola agli antichi splendori, e poi al Fai, la dimora ha diversi proprietari. Ancora, una piccola Donatella Lamberti va a consegnarci la posta: «Dovevo farmi tutto il Lavedo a piedi attraversando il bosco, che mi ha sempre fatto un po’ paura. Suonavo al Balbianello e, dopo un po’, vedevo arrivare un cameriere che mi accompagnava verso la villa. In quegli anni il proprietario era un americano coi pantaloni rossi. Ricordo che trovavo quel capo d’abbigliamento proprio assurdo, vivendo tra persone vestite di grigio, di marrone o di nero: mi sembrava di essere a carnevale. L’americano mi portava al terrazzo, dove incontravo le signore che prendevano il sole. Mi presentava forse come fenomeno da baraccone – una bambina di dieci anni che lavorava, chissà cosa pensavano – ma mi dava sempre una mancia di 500 lire, che ai tempi erano soldi. In questo modo, io e Corrado contribuivamo alla famiglia: è stato un modo per crescere responsabili».
Se “l’americano” è un parente del generale Butler Ames, “Corrado” è Corrado Lamberti, fratello di Donatella, astrofisico di fama internazionale che beneficia sin dalla giovane età dell’istruzione che Carluccio, il padre, garantisce ai suoi figli. Mentre Donatella si ferma agli studi superiori, per assistere proprio il genitore, ora ammalato, Corrado prende il diploma al liceo scientifico Paolo Giovio di Como e si laurea in astrofisica alla Statale di Milano. Molto legato al suo paese natale, dove ha vissuto con la moglie, la carriera di successo lo porta a diventare uno dei migliori scienziati del Lario e grande amico della fisica Margerita Hack, con la quale dirige le riviste L’astronomia e Le stelle. Donatella ricorda le numerose conferenze che, in qualità di bibliotecaria, ha organizzato per ospitare i carismatici interventi divulgativi del fratello, dei quali ci sono numerose tracce nei notiziari della biblioteca. Ma la vita umana è rapida e mutevole: il 17 aprile 2020, la pandemia da Covid-19 stronca la vita di Corrado Lamberti all’ospedale di Gravedona, all’età di 72 anni.
Traspare da queste esperienze che la società lennese è davvero composita e che definirla un unicum per abitudini e stili di vita è impossibile. Per anni, ad esempio, una buona parte di essa è stata coinvolta nella Kent-Tieghi S. p. A. (convogliata poi nell’attuale ABB) fondata a Milano nel 1936 dall’ingegnere Mario Tieghi e trasferitasi sulle sponde lariane nel 1943, ai piedi della Val Perlana, che separa Lenno da Ossuccio. La ditta di apparecchiature di controllo elettrico ed elettronico ha dato lavoro a moltissime persone, aiutando il superamento del periodo di grande povertà che ha coinvolto Lenno nel Dopoguerra. Nel notiziario della biblioteca risalente al febbraio 1987, Guglielmina Botta, assessore dell’amministrazione uscente, ma impegnata in Comune per diversi anni, commenta così l’importanza della Kent-Tieghi per il tessuto sociale ed economico lennese: “Vorrei porre l’accento […] sugli stimoli culturali che, direttamente o indirettamente, pervengono alla nostra popolazione, quali l’opportunità di avvicinarsi alle tecnologie sempre più avanzate, di cui l’Azienda fa uso […]. In secondo luogo, rileverei quanto sia proficuo per una nazione come la nostra, priva di risorse naturali e pertanto fortemente tributaria dei paesi esteri per l’acquisizione di materie prime, il ruolo di aziende, quali la Kent-Tieghi. Essa infatti […] realizza prodotti altamente qualificati e competitivi in tutto il mondo, grazie all’apporto determinante di capacità e professionalità delle proprie Maestranze”. Nel ventunesimo secolo, i lennesi impegnati nell’ABB sono di meno che negli anni del boom economico. La maggior parte ricopre invece le professioni di albergatori, commercianti, piccoli imprenditori, insegnanti, operai, cuochi e camerieri. Non sono pochi i frontalieri, ovvero i lavoratori italiani che ogni giorno raggiungono la Svizzera, a circa trenta chilometri di distanza.
Ma cosa caratterizza gli abitanti di questo paese? Me lo riassume in poche parole Augusto Vanzini, vigile della Polizia locale nato a Lenno nel 1961 e che ci vive attualmente, insieme alla famiglia: «Siamo persone abbastanza chiuse, dei lavoratori. Una volta c’era molto campanilismo tra i paesi, anche nei tornei di calcio nelle sere d’estate. Penso che qualcosa sopravviva ancora adesso, ma con minore intensità». Questo non vuol dire che le persone non siano accoglienti. «Sono arrivata qui come giovane sposa e abitavo nella frazione alta. Eravamo attorniati da anziani che ci hanno accolti, soprattutto signore come la Olimpia o la Gianna, entrambe due Cetti, famiglia lennese. Le chiamavo “zie”. Si andava insieme ai primi mercati, alle cerimonie religiose, ci invitavano a pranzo e a cena. Ci hanno fatto conoscere e amare questo bellissimo posto che ci ha subito presi e incantati» ricorda Anna Rachele Ferrari, che a vent’anni, nel 1973, viene a vivere a Lenno insieme al marito, Lorenzo Conti. La signora Ferrari, ormai nonna di quattro nipoti, tutti lennesi ma che conservano anche le sue origini bresciane, vive ora al principio di quella via Soccorso attorno a cui si sviluppò il paese, secoli fa. «Frequentavo le zie soprattutto appena diventata mamma, alle prese con una bimba piccolissima. Ricordo una volta in cui mia figlia piangeva a dirotto e io non sapevo cosa fare: loro me l’hanno accudita e mi hanno tranquillizzata. C’era questo aiutarsi a vicenda, questa solidarietà, il far parte di una famiglia. Le zie mi hanno anche portata alla scoperta dei piatti locali: la miascia, le patate arrostite, i missoltini…», una cucina del posto a tutti gli effetti “povera”, quindi fatta di ingredienti semplici e di facile reperibilità. La miascia è un piatto dolce che si prepara con pane raffermo, latte e uvetta. Patate arrostite e missoltini sono invece dei pasti salati: le prime con formaggio, i secondi sono degli agoni di lago essiccati, dal gusto particolare che non tutti apprezzano.
Nel Larius, la grande enciclopedia del lago di Como, si trovano tantissimi riferimenti tanto alla cultura culinaria lennese, quanto alle sue tradizioni. Una di queste parla dei canestri di Lenno, occasione in cui la gente porta dei doni che vengono messi all’incanto. Quella dei canestri è una tradizione che esiste ancora oggi e che riguarda in particolare la frazione di Masnate, a Nord del paese, anche genitrice di Oscar Cantoni, cardinale della Santa Chiesa Romana e cugino dei Lamberti. L’usanza consiste in una specie di asta di merce alimentare prodotta in casa, come vini, olii o torte, in cui il premio va al miglior offerente. Le cifre per una semplice crostata possono raggiungere il centinaio di euro. Parla Agostino Cadenazzi, storico “incantatore” dei canestri: «È un ruolo che ho ereditato e appreso dal mio amico Francesco, che lo faceva anni fa. L’incantatore deve essere molto furbo e astuto, perché lo scopo è guadagnare soldi che vadano alle attività parrocchiali. L’incantatore deve saper quindi guardare in faccia la gente e invitarla ad aggiungere dieci, venti, trenta euro, altrimenti si fermerebbero tutti alla cifra bassa». Nella comunità parrocchiale di Lenno, i canestri si organizzano tre volte all’anno: in occasione della festa della Santissima Trinità, che cade la domenica successiva alla Pentecoste; nella terza domenica di settembre, per la celebrazione solenne di San Crescenzio, e la prima domenica di ottobre, per la Beata Vergine del Rosario.
Ma la storia di Lenno è fatta anche di questioni che si spalmano sui decenni e che assumono rilievi di portata nazionale. Come tutta la sponda occidentale, specialmente quel tratto che da Colonno arriva a Menaggio, il paese risente di due problemi non trascurabili: la Statale, troppo stretta e nodosa per i tempi correnti, e il turismo, che è una delle cause dei disagi della viabilità in tutto il territorio. Ne consegue che fare pochi chilometri significa pazientare guidando a rilento, con la marcia ferma sulla seconda. Perciò i trenta chilometri che distanziano Lenno da Como e dalla Svizzera possono equivalere a fino due ore di macchina, tre o quattro nei casi più eclatanti. Definire il turismo un “problema” può risultare discutibile, perché i benefici economici che esso garantisce sono fattuali, soprattutto per le strutture alberghiere e di ristorazione presenti in grandi quantità lungo il Lario. L’altra faccia della medaglia è però un’altra: «Il troppo stroppia. Traffico e prezzi sono aumentati a dismisura, per non parlare degli affitti e del costo della vita. Non trovi parcheggio, non abbiamo strade adeguate. Io non ho mai visto così tante persone» commenta Vanzini. Il turismo divora il territorio e i suoi abitanti in particolare nei mesi estivi. Quale potrebbe essere una soluzione per porgli un freno? Giovanni Botta, geometra e sindaco di Lenno dal 1985 al ’95, e dal 2004 al 2009, individua un elemento cardine del discorso, di quelli che potrebbero arginare l’entropia dilagante: «Continuare a costruire cinque stelle non aiuta la causa. Si sta esagerando dal punto di vista ricettivo. Proprio in questo momento è in via di progettazione un altro albergo di lusso, che nascerà dalle ceneri di un vecchio hotel ormai non più a norma». La clientela è sempre più elitaria e influenza il livello di vita sul Lario. Il fenomeno coinvolge l’intera Tremezzina. A Griante, a pochi chilometri da Lenno, ha preso la stessa direzione il Grand Hotel Cadenabbia, che passerà presto dall’essere una struttura a quattro stelle a un cinque lusso. Ma anche la questione della movibilità non è da poco. La Statale Regina, il cui tracciato la tradizione attribuisce a Teodolinda, regina dei Longobardi e d’Italia nel sec. VI, ma che in realtà è di origini romane, è il vero dilemma di chi abita sopra Argegno, dove la strada prende spesso le sembianze di una corsia monodirezionale. Giovanni Botta, chiamato a Lenno “Johnny”, si è occupato della questione sin dagli anni Settanta, quando è entrato nel comitato per l’ampliamento del tragitto nato a Menaggio, in centro lago.
Ora, chi non vive sul Lario deve sapere che i suoi abitanti si chiamano laghèe, termine tanto patriottico quanto dispregiativo. Non è raro che i comaschi, ovvero i cittadini di Como, si riferiscano a chi risiede sulle sponde lacustri con l’accezione negativa. Questo ha sempre alimentato una sorta di ostilità tra le due fazioni, che fomenta anche gli stessi sensi di rivalsa di cui Giovanni Botta racconta: «Nel ’73 abbiamo fatto la prima manifestazione. Siamo partiti da Menaggio con automobili e camion e ci siamo diretti verso Como. Io ero in testa con la mia Jeep rossa e con un megafono in mano e urlavo ai comaschi che noi eravamo la gente del lago, che avevamo un problema pressante che la provincia ignorava e che dovevamo essere ascoltati perché la nostra strada era sempre più caotica e impercorribile. Lasciammo i mezzi parcheggiati attorno allo stadio Sinigaglia e andammo in delegazione dal prefetto». Da quell’episodio, prendono avvio una serie di interventi in centro lago, a cui ne seguono altri sempre mossi da manifestazioni, sollecitazioni e unioni tra sindaci e parlamentari. Nel frattempo, la Statale è passata sotto l’egida dell’Anas. La lentezza di un progetto in Tremezzina, partito solo nel 2021, si spiega con due frane che catturano su di sé la priorità: la prima, a Brienno, verso Como; la seconda a Cadenabbia. Gli interventi per sistemare i danni causati dal cedimento delle pareti montuose ha aggravato la situazione precaria della viabilità sulla sponda occidentale. «Ad un certo punto si sono accorti che era necessario intervenire. Questo fu grazie anche a Mauro Guerra, attuale sindaco che, in quanto deputato, sollecitò finanziamenti al Parlamento, finché questi non furono destinati al lotto Colonno-Griante». La provincia viene incaricata per le prove penetrometriche, ovvero una serie di test geotecnici utilizzati per valutare la capacità portante del terreno. Lo scopo è infatti quello di realizzare una variante che, attraverso le montagne, allevi il peso che i paesini del lago sostengono in termini di traffico. Ma ai lennesi, dopo le prime riunioni, non va bene il percorso: «Prevedeva le uscite a Lenno, sulla Val Perlana, e a Tremezzo. Ci siamo opposti come amministrazioni perché una strada che scende dalla Val Perlana era davvero improponibile dal punto di vista paesaggistico. Ricordo che nella riunione coi tecnici dell’Anas a Roma, quando abbiamo visto il progetto abbiamo detto: ‘Ma stiamo scherzando?’. Rimasero tutti stupiti che non volessimo delle uscite nel nostro paese». Il cantiere, avviato solo il 29 novembre del 2021, procede non senza difficoltà. Tra le ultime complicazioni, c’è stata la breve interruzione degli scavi per via di complicazioni nel deflusso dei rifiuti geologici. Gli estremi della futura variante si trovano infatti a Colonno e a Griante, distanti parecchi chilometri dalle strutture di smaltimento dell’alto lago.
“Io già predico, né la mia predizione è fallace, che le tue istorie saranno immortali”, scriveva Plinio il Giovane a Tacito. I paesi piccoli hanno il pregio di essere dei raccoglitori di storie orali che sopravvivono nei secoli. L’interconnessione delle persone tanto dal punto di vista familiare, quanto da quello amicale e conflittuale, non smuove conoscenze radicate di generazione in generazione. Una storia non rimane mai del singolo, perché tra i personaggi che la compongono ci sarà sempre l’amico di lei, il fratello di lui, il cugino del sindaco. Il raccoglimento dell’anima che Lenno offre lascia così spazio alla preziosa intimità dei ricordi, che suscita un bisogno innato di dare voce al proprio racconto. È l’incantesimo della provincia, uno stile di vita, lo stesso che Plinio il Giovane cercava a villa Comoedia e nell’omologa Tragedia. Lenno non si sottrae da questa descrizione. Tra le sue tradizioni e le sue leggende, sono sempre meglio le storie vere, quelle di un’umanità studiata, ma non troppo, umile, ma non sprovveduta, bensì molto saggia e astuta. Chiedo a Donatella di raccontarmi una leggenda e a lei viene in mente quella della donna vestita di rosso: varie testimonianze collocherebbero il fantasma di una donna con un abito lungo e rosso suonare il pianoforte di notte a villa Monastero, un antico convento ora dismesso collocato nella frazione lennese di Campo. Ma noto che la appassiona molto di più rievocare il padre Carluccio, che amava il teatro tanto da fondare una compagnia con cui, nei piccoli spazi della zona, organizzava degli sketch, come quello in foto. Donatella ricorda in particolare uno spettacolo sugli amori della storia: Dante e Beatrice, Rofolfo e Mimì, Napoleone e Maria Walewska. Proprio questi ultimi vengono interpretati con successo da lei e da Corrado, quando hanno rispettivamente otto e dieci anni. È la Storia che si fa storia. Erano altri tempi di cui ora sopravvivono memorie, parole e fotografie, con cui confrontare il passato con il presente. Ma la memoria è in grado di sostanziare un amore duraturo, che sopravvive nelle intemperie. Si legge nella voce di Augusto Vanzini: «Per me, Lenno è uno dei paesi più belli del lago, perché ha sfogo, non è impiccato su una roccia, anche se hanno costruito dappertutto. Dove abitavo, quando ero giovane, erano solo prati e, arrivando la notte, era pieno di lucciole, di grilli, di insetti. Ricordo, nelle sere di maggio, l’odore del fieno che era appena stato tagliato».