Il web ha rivoluzionato il nostro modo di fruire delle news, creando veri e propri archivi virtuali sempre aggiornati e consultabili in ogni momento. Di questi archivi, tuttavia, non fa ancora parte il data journalism, vittima di quello che in informatica si chiama code rot: un deterioramento – provocato dal mancato aggiornamento – delle prestazioni del software che porta il sistema a diventare difettoso e inutilizzabile, fino ad andare in crash e a fa comparire sugli schermi la detestata scritta «404 error».
Il primo caso è di data journalism è del 1821 e porta la firma del Guardian, mentre è del 1991 l’opera The New Precision Journalism di Philip Meyer, nella quale vengono analizzate le cause dei disordini di Detroit del 1967. Il sito Vox.com si è posto la domanda alla base di questa inchiesta: «Senza il lavoro di Meyer, sarebbe stato possibile realizzare lo studio degli incidenti – visibile sul sito del Guardian – scoppiati in Inghilterra nell’estate del 2011?»
Il data journalism si configura come il ponte ideale di passaggio tra chi detiene le informazioni e chi vuole fruirne, ma soltanto le parole rimangono salvate e conservate nei server, mentre mappe, guide interattive e grafici spariranno come se non fossero mai esistiti. Serve rimanere costantemente aggiornati e porsi il problema di come archiviare quel patrimonio, altrimenti di questa «età d’oro» del data journalism rimarrà il ricordo di semplici immagini animate o di pezzi di analisi del testo.