E Johnny prese il fucile è un originalissimo spettacolo tratto dal romanzo dello sceneggiatore Dalton Trumbo. Un audiodramma in scena, la denuncia della tragedia di ogni guerra. Sax Nicosia è il sensibile e intelligente protagonista.

Questo è uno spettacolo molto particolare. Coniuga teatro e radiodramma. Per un attore è una bella sfida.

Lo è, e mi fa piacere che la definisca bella. Sono stato felice di affrontarla: ho studiato in un’accademia, quella di Luca Ronconi a Torino degli anni Novanta, fondata sul “teatro di parola”. Analisi profonda del testo da recitare e un’attenzione maniacale alle parole, nello sforzo continuo di restituirle al pubblico in tutta la loro concretezza. In questo spettacolo, proprio le parole sono il distillato più puro del personaggio Johnny: non ha più un corpo, gli sono rimasti solo i suoi pensieri, che l’attore veicola con le parole attraverso un microfono. Il corpo della radio è fatto di microfono, parole, e ascoltatori. Teatro e radio, il cerchio si chiude. E poi è singolare che il mio primo lavoro, nel lontano 2001, fu proprio con Sergio Ferrentino e con uno dei suoi primi esperimenti di radiodramma a teatro: teatro Gobetti di Torino, pubblico in sala munito di cuffie, diretta su RadioRai3, tre radiodrammi scritti da allievi della scuola Holden.

Johnny  è il soldato di tutte le guerre. La vittima di meccanismi più grandi di lui che lo stritolano nell’anima e nel corpo. Johnny diventa così coscienza critica. Possiamo parlarne?

Johnny, costretto all’immobilità e soprattutto all’incomunicabilità, non può far altro che pensare. E il suo è il pensare di un uomo che non è ancora morto, ma che non riesce – e sono parole sue – a definirsi propriamente vivo: da questa dicotomia al limite, da questo “stritolamento” nasce la sua coscienza critica, la denuncia verso un militarismo tirannico che è proprio di ogni guerra. Un militarismo così cieco da svuotare di senso concetti come “patria” e “libertà”; così spietato da trasformare il soldato in un corpo al servizio della morte. Johnny è coscienza critica proprio perché non è più un corpo. Quelle di Johnny sono le parole che direbbe ogni soldato morto in ogni guerra mai combattuta, o almeno a me piace pensare che sia così.«Un militarismo così spietato da trasformare il soldato in un corpo al servizio della morte»

Questo testo, pensato sul primo conflitto mondiale, è diventato il manifesto della generazione che si opponeva alla guerra del Vietnam. Come si è trovato con una scrittura così carica di passato e che dice tanto al nostro presente?

Mi sono sentito protetto. Provo a spiegarmi: ho trovato in questo testo la potenza di un “classico”, e quando un attore deve recitare un classico, si sente sempre in qualche modo protetto dalla sua verità, dalla sua potenza. Le parole di Johnny valgono per la prima guerra mondiale, per la seconda, per la guerra del Vietnam, per le guerre del nostro presente: sono, come quelle dei classici teatrali, eterne.

La riflessione, portata avanti nel monologo, scava a fondo nella coscienza sporca dell’Occidente. C’è un passo della pièce a cui tiene particolarmente, in questo senso?

Sì, sono molto affezionato al momento in cui Johnny pensa di scrivere una certa lettera: la più limpida riflessione sull’inutilità della guerra che io abbia mai letto. Con i ragionamenti di un uomo semplice eppure lucidissimo, si interroga sul vero significato di “libertà”, “dignità” e “onore” e di come questi concetti vengano strumentalizzati al fine di perpetrare l’esercizio della guerra. «La più limpida riflessione sull’inutilità della guerra che io abbia mai letto»

Può raccontarci di come ha lavorato a questo personaggio? Johnny è un dead man talking, mi passi l’espressione.

L’espressione gliela passo, e mi piace molto. Le parole e i discorsi di Johnny sono espressione del suo cervello. Per capirci: non escono dalla sua bocca perché Johnny non ne ha più una, ma direttamente dalla sua testa. Con Ferrentino siamo proprio partiti da questo, dal tentativo di restituire il processo di un uomo che pensa, non di un uomo che parla. Una contraddizione evidente, eppure fertile. Quindi, da attore che invece deve necessariamente parlare, ho dovuto lavorare su una serie di “artifici” tecnici nel tentativo di restituire una comunicazione impossibile. Vero è che il pubblico, attraverso le cuffie, ha già un mezzo fisico per spiare il cervello di Johnny. Un’altra parte del lavoro attoriale è rappresentata dal fatto che non posso utilizzare il corpo per comunicare, la comunicazione corporea in un allestimento simile è ridotta ai minimi termini, ma questo limite si è dimostrato essere una ricchezza che mi ha costretto a convogliare tutte le emozioni nella voce.

Che tipo di rapporto si è sviluppato tra la sua voce e il microfono binaurale? Ha dovuto studiare una “giusta misura” per servirsene? Il microfono a forma di testa è un simbolo. Secondo lei siamo tutti amplificatori inconsapevoli della voce di qualcun altro?

“Giusta misura” è il termine esatto: il microfono binaurale raccoglie ogni suono, e le maiuscole non sono casuali. Respiri, sussurri, rumori. Non si può certo usare il diaframma come in un normale spettacolo di prosa, qui devi cambiare anche il modo di urlare, ad esempio. E non solo il suono, ma ho dovuto studiare anche lo spazio, il punto esatto in cui dire alcune battute perché la testa cattura il suono a 360 gradi. Ancora limiti e, però, ancora altre ricchezze. La testa binaurale è, in questo spettacolo, sicuramente un simbolo fortissimo di Johnny stesso, amplifica i suoi pensieri e le sue riflessioni. Siamo tutti amplificatori? Non saprei. Ma essere amplificatori inconsapevoli della voce di qualcun altro, oggi, è un fenomeno evidentemente in ascesa, pericoloso quando si amplificano contenuti negativi e quando “inconsapevole” significa superficialità e ignoranza.

Nel 1971 lo stesso Dalton Trumbo girò un film tratto dal proprio romanzo. Lo ha visto? Se sì, che suggestioni ne ha tratto? Se ha scelto di non vederlo, c’è stata una ragione precisa?      

Lo vidi eccome: avevo circa 13 o 14 anni. Quel bianco e nero abbacinante è ancora nella mia memoria, ne ho un ricordo che posso solo definire come potente e “scomodo”. No, ho scelto di non rivederlo, ho voluto proteggere la mia personale creazione di Johnny: noi attori siamo spugnee ho preferito evitare qualsiasi condizionamento.

Lo spettacolo è molto forte. Avete registrato reazioni particolari da parte del pubblico? C’è differenza tra le generazioni, in questo?

Sì, le reazioni sono sempre forti perché questo connubio teatro/radiodramma genera un coinvolgimento inedito per il pubblico. Però, no, non ho notato differenze generazionali.

Andando avanti con le repliche pensa che conoscerà sempre di più il suo personaggio? È un percorso di (reciproca) conoscenza sempre in atto?

Sicuramente. Questo avviene con qualsiasi personaggio, in qualsiasi spettacolo. È proprio il bello del mio lavoro: si chiamano “repliche”, ma sono sempre “nuove”, ed ognuna di esse contiene in sé quelle precedenti, una sovrapposizione di esperienza e conoscenza.

Se dovesse scegliere tre parole per definire questo spettacolo quali sarebbero?

Fiero, totalizzante, eppure sospeso.

 

E Johnny prese il fucile

Adattamento e regia     Sergio Ferrentino Fonderia Mercury

Interpreti   Sax Nicosia, Eleni Molos, Roberto Recchia

Musiche originali   Gianluigi Carlone