Dai messaggi di Osama Bin Laden tra le montagne dell’Afghanistan ai tweet inneggianti il jihad dell’Isis, la comunicazione del terrorismo di matrice islamica ha fatto un salto di qualità in termini di linguaggio e capacità di seduzione, ed è oggi in grado di spaventare seriamente i servizi di intelligence occidentali.
In principio era la grotta
Video messaggi amatoriali girati con mezzi di fortuna e distribuiti su videocassette portate fisicamente da corrieri alle sedi di corrispondenza di Al-Jazeera, blog rudimentali esclusivamente in lingua araba e siti Internet che potevano fare presa solo sul più esaltato dei salafiti. L’intero messaggio propagandistico dei terroristi post 11 settembre era influenzato dalla convinzione che l’unico interlocutore possibile fosse un cittadino di lingua araba nato in uno dei Paesi dell’area medio orientale.
Quello che hanno capito le menti alla base della rinnovata propaganda dell’Isis è la paura più inconfessabile dei paesi occidentali: l’idea che la nuova generazione di combattenti della guerra santa sia nata e cresciuta in occidente, educata in scuole occidentali con i valori della democrazia. Valori che in tanti, troppi casi sono stati eclissati dall’interpretazione distorta di un Islam radicale. Una storia che si è replicata per migliaia di casi, se teniamo conto dei quasi 15mila foreign fighters che ingrossano le fila dei combattenti dell’Isis in Siria e Iraq. Storie di esclusione sociale e fallita integrazione che, complice la propaganda dal califfo Al-Baghdadi, sono alla base della scelta estrema di molti uomini e donne partiti per il jihad.
Dabiq, il magazine
Lo Stato Islamico ha realizzato che, per avere una presa più inclusiva possibile, deve utilizzare forme e linguaggi del mondo globalizzato: la lingua dell’occidente. Forse non tutti sanno che il Califfato, oggetto dell’interesse di tutti i media a livello mondiale, ha deciso di non rimanere un oggetto passivo del panorama informativo, ma di passare al contrattacco. Con cadenza mensile il gruppo di comunicazione al-Hayat Media Center pubblica Dabiq, il magazine di propaganda di IS.Lo Stato Islamico ha capito che, per avere più presa possibile, deve utilizzare i linguaggi del mondo globalizzato: tra questi, la stampa
Un nome altamente simbolico per l’universo islamico in generale e sunnita in particolare: Dabiq è un piccolo villaggio siriano dove nel 1516 le armate Ottomane hanno sconfitto i Mammelucchi che governavano l’Egitto decretando la supremazia turca e la proclamazione del Califfato ottomano. Nel delirio di Al-Baghdadi l’attuale Stato Islamico è l’ideale prosecuzione del califfato storico.
Il primo numero di Dabiq è apparso nel luglio 2014 e da allora le uscite si sono susseguite regolarmente. Tradotta in quattro lingue (inglese, francese, tedesco e arabo), la rivista si prefigge di raggiungere il massimo numero di lettori, soprattutto nei Paesi occidentali. Un obiettivo perseguito con una forma concisa e rapida, dove la citazione delle sure coraniche, tanto care a Ben Laden e ai suoi luogotenenti, viene potenziata con un linguaggio 2.0. Nell’impaginazione le immagini hanno un ruolo predominante sul messaggio scritto, e ricordano molto i crismi di Hollywood e dei videogame.
Isis: linguaggio visuale e social
Quello che molte istituzioni dell’Occidente non hanno ancora capito è invece ben chiaro alla macchina propagandistica dell’Isis: i giovani vengono colpiti dal linguaggio visuale, non da fiumi di inchiostro e sermoni religiosi. Pensiamo al trailer del film Flames of War, che racconta con profusione di esplosioni ed effetti speciali la vittoriosa campagna di Daesh (Stato Islamico in Siria e Levante). In rete circola anche il videogame ispirato alla serie di GTA, ma in salsa jihadista. L’età media dei combattenti in Siria e Iraq è la prova che questa intuizione è vincente.
Ma il campo dove si mostra la maggiore capacità di seduzione e reclutamento sono i social network. Dopo la chiusura da parte dell’amministrazione di Twitter dell’account ufficiale dell’Isis, la cyber propaganda si è fatta più sfuggente, sfruttando account e hashtag a volte anche insospettabili. Quasi tutti i profili e i messaggi cinguettati nei profili di twitter legati all’Is sono scritti in modo da essere capiti da tutti, nella lingua della comunità internazionale, ossia l’inglese. Non sono rivolti agli arabi quindi, ma al mondo.
Un caso emblematico è quello di #BeMalcomLikeX. L’hashtag si legge sotto un messaggio scritto a mano dall’Is che si offre di supportare i moti di protesta di Ferguson, generati dalla mancata incriminazione dell’agente Darren Wilson per l’uccisione del 18enne nero Mike Brown. Cercando su Twitter questo hashtag si trovavano, fino a pochi giorni fa, foto del messaggio originale scritto a mano, terroristi ben armati e in posa, messaggi propagandistici e incitazioni alla rivolta. L’agente FBI: «Dopo l’11 settembre non abbiamo mai avuto una strategia per contrastare la diffusione delle ideologie»
Tra gli hashtag di accompagnamento si trovano anche #Ferguson, #Fergusondecision e #FightBack, tutti legati allo stesso argomento, uno dei temi caldi più seguiti del momento. In questo modo aumentano le possibilità di arrivare anche ad altri utenti. È una bomba mediatica che viaggia attraverso i social network, colpisce senza distruggere palazzi, ma attirando l’attenzione del mondo.
I profili utilizzati per mandare questi messaggi sono diversi. @mediaLIESalways e @FightingJmedia si scagliano contro i media locali e internazionali che, a loro parere, mentirebbero. Propongono in questi profili notizie sui Paesi dell’area islamica dal loro punto di vista, alternate da post di propaganda e dalla condivisione di contenuti di altri utenti. Allo stesso modo, gli affiliati del gruppo terrorista dello Stato Islamico, o presunti tali, utilizzano Twitter facendo rete e pubblicando messaggi propagandistici o retweettando contenuti di altri canali, che si riferiscono allo Stato Islamico, al Califfato o all’Isis.
Una guerra tecnologica su tutti i fronti che l’Occidente non sembra capace di contrastare efficacemente. Come ha dichiarato allo Spiegel Online l’agente dell’Fbi Ali Soufan «il nostro limite è che dopo l’11 settembre non abbiamo mai avuto una strategia che contemplasse il contrasto ideologico, una contro narrazione ai loro messaggi. Abbiamo strategie per la nostra sicurezza, per eliminare i loro leader, ma nessuno per fare contro informazione. Nel 2004, Bin Laden aveva circa 400 seguaci. Oggi Daesh può contare su migliaia di combattenti e seguaci provenienti da tutto il mondo. Questo è un tragico fallimento».